La magnifica saga dei Passadori, «chirurghi» del pianoforte dal 1909
È facile pensare che un pianoforte sia un oggetto immobile, elegante, perfetto così com’è. Invece è un organismo vulnerabile, capriccioso, sensibile quasi come se fosse una creatura viva. E in una bottega di Contrada Santa Chiara, in città, da più di un secolo c’è chi se ne prende cura come si fa con una monoposto ai box della Formula 1.
È il mondo dei Passadori, dove restaurare equivale a operare come un chirurgo e accordare significa lavorare di caviglie – l’equivalente delle chiavette della chitarra – per trovare l’equilibrio migliore insieme al musicista che si esibirà in concerto.
La storia dei Passadori
La loro storia comincia nel 1909, quando il nonno Giuseppe apre la prima attività in Contrada delle Cossere. Poi il trasferimento davanti all’attuale Università Cattolica e infine, nel 1956, l’approdo definitivo in Contrada Santa Chiara, dove la famiglia ancora oggi vive e lavora. Giuseppe avvia al mestiere i tre figli, Piero, Enzo e Angelo e oggi la bottega è nelle mani di Giulio Passadori, 58 anni e 44 di esperienza, di suo cugino Beppe e di suo figlio Marco, giovane apprendista.
Insieme a loro c’è anche Luca Zanotti, tecnico accordatore Steinway figlio di Angela Passadori, sorella di Giulio che da un paio di anni si è ritirata dall’attività. Nel 2018 Passadori è diventata la prima Steinway Piano Gallery italiana ma da ben prima è stata scelta dalla casa madre della Steinway & Sons come rivenditore ufficiale di pianoforti per le provincie di Brescia, Cremona, Mantova, Verona, Trento e Bolzano.
Una bottega e galleria espositiva a conduzione familiare, insomma, «che non dimostra i suoi 116 anni» racconta Giulio scherzando. Da piccoli a lui e a suo cugino Beppe l’ingresso in laboratorio era proibito: ci finivano lo stesso, provocando disastri che il padre cercava di contenere relegandoli ai pianoforti destinati alla demolizione.
Forse è lì che è scattata l’impronta del mestiere, perché quando chiedevano a Giulio cosa volesse fare da grande lui rispondeva senza pensarci: «l’accordatore». E così è stato.
Cosa vol dire restaurare un pianoforte

«Restaurare un pianoforte – dice Giulio – è come operarlo». Si smonta tutto fino all’osso: legno, corde, martelletti, meccanica. La temperatura e l’umidità sono i veri anestesisti: il legno respira, si dilata, si restringe, cambia umore. Un tempo il 50% di umidità era normale, oggi le case iperisolate e sempre riscaldate possono scendere al 30% d’inverno, una condizione che «fa star male il pianoforte».
La tavola armonica soffre, la meccanica cambia risposta, l’accordatura non regge. Eppure quasi tutto è riparabile, perché un pianoforte non si butta quasi mai: si smonta, si ricicla, si separano ottone, acciaio, legno. Nulla finisce davvero.
Come funziona l’accordatura
L’accordatura, invece, è un laccio tirato prima della corsa. È adrenalina, ascolto, intuizione. È la sfida di capire cosa vuole un pianista prima ancora che lo dica, se lo dice. A volte il problema è la barriera linguistica – si passa infatti dal bresciano (quello di Giulio e Beppe) al russo parlato dal musicista fino all’italiano tecnico, che cambia lessico a ogni valle: «Quelli che a Brescia chiamiamo blocchetti a Bolzano diventano zocchetti – spiega Giulio –. Le astine, invece, diventano stiletti. Alla fine ci tocca parlare tedesco tra italiani per capirci».

Un altro possibile ostacolo nel mondo dell’accordatura è il silenzio, il non detto. Il pianista che, per timidezza, magari non osa chiedere, o che non sa come farlo, o che teme di disturbare. Giulio allora osserva i gesti, ascolta come il musicista tocca i tasti, sente la sfumatura di un’idea che ancora non forma parole. Poi la propone lui: «Non è che vorrebbe una voce più squillante nella mano destra?». Nel mestiere di un accordatore c’è anche questo: suggerire le domande. Capita poi che un pianista arrivi a teatro dall’aeroporto poco prima del concerto: deve provare, sperando che il pianoforte giunto sul palco si sia adattato alla temperatura. Lì si annidano le sfide più avvincenti, tra una prova e una accordatura per raggiungere il suono ottimale. Una buona parte la fa il pianoforte stesso.
Gli Steinway e la scommessa
Ogni piano Steinway nella galleria di Passadori ha un soprannome che racconta difetti, pregio, umore. Ci sono Theodore, Henry, Ferdyman, e persino uno chiamato il Tiranno.

Ogni pianoforte è come un individuo con una voce che non assomiglia mai a quella del vicino. Quando un pianista arriva per scegliere lo strumento per un concerto spesso si siede e ascolta oltre a suonare. Gli strumenti Passadori vengono caricati, portati in teatro, lasciati stabilizzare, accordati, sistemati di nuovo, regolati ancora. Giulio dice che la regolazione della meccanica è la torta e l’accordatura la ciliegina. C’è un momento che gli piace più di tutti: quando il suono aggancia il pianista, quando quello che dice lo strumento è esattamente ciò che le sue mani vogliono sentire. «È come cucire un vestito addosso a qualcuno – racconta –. Il pianoforte deve sparire, diventare un’estensione del corpo».

Nella bottega Passadori niente è mai uguale. Ogni mattina è un’incognita. Ogni strumento un carattere, ogni concerto una scommessa. Ma c’è una cosa che rimane identica dal 1909: quell’idea che un pianoforte sia un organismo vivo, che abbia un destino da proteggere, una voce da liberare, un equilibrio da mantenere. Ed è per questo che chi entra lì dentro anche solo per un accordo esce sempre con la sensazione di aver visto qualcosa di raro: un luogo dove l’artigianato non è nostalgia ma un modo di restituire al mondo il respiro delle cose fatte bene.
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