Il Giusto Oreste Ghidelli, la pronipote: «In famiglia mai parole di odio»

Fare memoria costa fatica. Mentale ma anche emotiva. A maggior ragione adesso che i testimoni che vissero le deportazioni nei lager sono quasi tutti scomparsi. E il compito-dovere di ricordare la Storia e non farla riscrivere è affidato ai loro familiari, che si impegnano per tramandarla affinché la Shoah non sia relegata a poche righe in un libro di scuola.
Una fatica che Francesca Fontana conosce bene, come pronipote di Oreste Ghidelli, un «Giusto» che salvò una trentina di soldati canadesi e inglesi accompagnandoli in Svizzera prima di venir arrestato e portato, nel gennaio del 1945, nel campo di concentramento di Flossenbürg e poi nel sottocampo di Zwickau, ucciso da una raffica di mitra durante una «marcia della morte» verso la Cecoslovacchia l’1 aprile.
«L’avevo promesso a mia nonna Bruna di riportare lo zio a casa - ci racconta -. Lei era la sorella più grande dei Ghidelli ed era molto legata a Oreste. Era convinta, nonostante non ci fossero evidenze, che fosse ancora vivo». A muoversi per raccogliere documentazione su cosa fosse successo ad Oreste fu il fratello Adalberto, con cui la nipote Francesca, però, non aveva mai parlato della vicenda, perché in famiglia, soprattutto dal fratello più giovane, Walter, e anche dalla mamma di Francesca, Nelly e da suo fratello Mino, figli di Bruna, quel tema era considerato tabù, un argomento che suscitava ancora grande dolore, anche a distanza di anni.

«È stato solo nel 2017 che a furia di lavorare lo zio Mino ai fianchi, sono riuscita a convincerlo ad aprirmi il baule ereditato dallo zio Walter che conteneva tutto il materiale raccolto, tra cui la lettera che Oreste scrisse mentre lo deportavano al campo di concentramento di Bolzano, lasciata cadere dal tremo, alcune fotografie e anche il portafoglio di mio nonno Alfredo Tenchini, marito di nonna Bruna - ucciso dagli alleati -, crivellato di colpi, con un proiettile che aveva centrato la fotografia di famiglia».
Un aspetto questo, che ha sempre colpito Francesca: «Mentre mio zio Oreste si dava da fare per salvare soldati alleati, dal 1943 al 1945, mio nonno veniva ucciso proprio da loro. Eppure nella mia famiglia non ho mai sentito parole di odio nè verso i tedeschi nè verso gli inglesi».
Una lezione e un lascito decisamente importanti. Francesca oltre a riordinare i documenti di quel baule si è data da fare per far inserire lo zio Oreste tra i Giusti, contattando Israele, Roma e infine un’associazione e per ottenere dal Comune una Pietre d’inciampo della città - in via Corsica 88, dove ieri il Cdq Don Bosco ha deposto un mazzo di fiori -, svolgendo un lavoro di ricerca e di ricostruzione della storia per farne Memoria insieme al professor Alberto Bianchi e alla docente Monica Rovetta del Gambara e ai loro studenti.
Esempi
«Secondo me i ragazzi hanno bisogno di qualcosa di tangibile per appassionarsi alla storia - continua Francesca Fontana -. Ad esempio gli studenti del Gambara che hanno ricostruito la vicenda di zio Oreste insieme alla loro insegnante, si sono entusiasmati molto quando hanno avuto tra le mani la lettera che lui scrisse nel gennaio del 1945 mentre lo stavano portando a Bolzano, o la fotografia fatta a pezzi dal proiettile che aveva colpito mio nonno Alfredo.
È stato faticoso ricostruire tutta la storia dello zio, soprattutto perchè vedevo che i miei familiari ne soffrivano e ne soffrono ancora solo accennandola, ma mi sono sentita in dovere di farlo, anche perchè lo avevo promesso a mia nonna, cui ero molto legata. E quella targa al Giardino dei Giusti al parco Tarello è un po’ come se fosse la sua tomba, dal momento che il suo corpo non è mai stato ritrovato. Io poi sono una casalinga, con la passione per la storia, ma non è il mio mestiere.
Mi sono appassionata, e grazie ai racconti di nonna Bruna mi pare quasi di averla vissuta, di averla fatta mia attraverso la sofferenza che lei provava nel riviverla e raccontarla. Non escludo che se me lo chiedessero, in futuro, potrei andare anche nelle scuola a raccontarla».
Il podcast
Per il momento la sua preziosa testimonianza è stata raccolta in una puntata del podcast «Aned-doti» ideato da Leonardo Zanchi, presidente dell’Aned di Bergamo che, in occasione dell’anno della Cultura Brescia e Bergamo 2023, ha esteso la raccolta delle testimonianze sui deportati militari a quelli bresciani e non solo agli orobici.
«Il lavoro dell’Aned di Bergamo raccolto in Aned-doti è bellissimo - conclude Francesca -. Ogni storia è diversa dalle altre. Sono le storie delle persone vere, vissute veramente, a essere diverse. Concludo solo raccontando quest’ultima cosa. Mio zio Mino si trasferì a vivere in Germania per lavoro. Non raccontò mai ai suoi amici di questa vicenda familiare. Un suo amico però mi contattò per chiedermi di quel che era accaduto dopo aver letto della Medaglia d’oro e della targa come Giusto dello zio Oreste. Questo amico tedesco, nel leggere il mio stato di Whatsapp di stamattina mi ha scritto che oggi penserà alla nostra famiglia. Questo vuol dire che se si vuole, si può vivere tutti insieme serenamente».
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato
@News in 5 minuti
A sera il riassunto della giornata: i fatti principali, le novità per restare aggiornati.
