Le figlie di Corvini: «Nessuno ricorda nostro papà, è la nona vittima della strage»

Giacomo Corvini morì al Fatebenefratelli di via Vittorio Emanuele il 3 novembre del 1976. 890 giorni prima, alle 10 e 12 del 28 maggio del 1974, transitò sulla traiettoria della strage. Con la figlia Elisabetta e con Marisa, la donna con la quale aveva costruito una seconda famiglia, ma dalla quale si era diviso da qualche tempo, si stava recando in contrada Santa Chiara. Aveva appuntamento per visionare un appartamento. La bomba non lo uccise, almeno non sul colpo. Schegge gli recisero l’arteria femorale. Per la violenza dell’urto gli esplose letteralmente un tallone e il portamonete che aveva in tasca gli si conficcò nell’addome, con tutto il suo contenuto. Si ritrovò al suolo, agonizzante. Si salvò per la prontezza di un soccorritore che percepì un battito in quel corpo immobile.
Della quarantina dei 102 feriti dalla bomba fascista analizzati dalla speciale commissione istituita al Civile, fu considerato in assoluto il più grave. Per quelle ferite, nei mesi successivi, Giacomo Corvini peregrinò da un ospedale all’altro e non per esercitare la professione che lo aveva visto, da affermato medico, operare prima al Civile, quando era ancora in via Moretto, poi all’ospedale di Ischia, che aveva contribuito a fondare, e infine negli oceani del globo, sulle navi da crociera. Nel tentativo di tornare alla normalità che stava vivendo fino alle 10 e 11 di quel martedì mattina, il dottore originario di Soncino, che era tornato a vivere e a lavorare a Brescia dall’inizio dei ‘70, cercò risposte in Italia; ma anche all’estero, in Germania. Si sottopose a diversi interventi, provò a scalare il suo personale calvario. Alla fine del 1976 fu colpito da una violenta emorragia gastro-duodenale che se lo portò via. Aveva 66 anni. La sua salma fu sottoposta ad un’indagine necroscopica, alla quale però non parteciparono incaricati nominati dagli eredi, né dalla figlia Diana avuta in prime nozze, né dai tre ragazzi frutto della sua seconda relazione.
Chi eseguì l’autopsia escluse il nesso di causa tra la bomba di piazza Loggia che lo investì in pieno e la sua morte: affermò che Corvini non è la nona vittima. Lo è per le figlie che da allora chiedono, senza risultato, se non un riconoscimento ufficiale, quanto meno un angolo di memoria. Un cenno anche per il papà che quella mattina era in piazza per caso, ma che della strage si è portato addosso solchi profondi fino alla morte.
La speranza
Elisabetta Corvini, all’epoca aveva 19 anni e quella mattina era al fianco del padre in piazza Loggia. Anche lei è segnata dalla bomba: nel fisico e nello spirito. Anche per la damnatio memoriae cui ritiene sia stato condannato il padre. «Negli anni ho richiesto attenzione, ma ci è stata negata anche una semplice formella perché mio papà non era morto sul campo. Noi eravamo semplici passanti – ci ha detto Elisabetta, che da tempo vive a Favignana dove gestisce un hotel - ma spero che almeno nel 50esimo anniversario gli venga riconosciuta una commemorazione. Sarebbe giusto, anche per quello che abbiamo dovuto affrontare dopo la sua morte. Fummo costretti ad abbandonare ogni progetto. Io, poche settimane dopo la strage, presi la maturità classica dal letto d’ospedale dov’ero stata ricoverata in seguito alle ferite. Avrei voluto continuare a studiare. Ma dovetti mollare tutto. Io e mio fratello, che eravamo già grandicelli, riuscimmo ad arrangiarci. Per mia sorella, che era poco più di una bambina, fu decisamente più difficile. Sarebbe bello che papà venisse ricordato, anche e soprattutto per lei. Per le sofferenze che ha patito».
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