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«La Strage di Brescia, frutto anche di una democrazia fragile»

Nicola Rocchi
La sfida portata negli anni ’70 dall’estremismo di destra alla democrazia italiana è stata il tema dell’intervento del politologo Piero Ignazi
Piero Ignazi
Piero Ignazi
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La sfida portata negli anni ’70 dall’estremismo di destra alla democrazia italiana è stata il tema dell’intervento del politologo Piero Ignazi, ospite martedì 20 febbraio dei «Pomeriggi» curati da Fondazione Clementina Calzari Trebeschi nell’auditorium San Barnaba, piazzetta Benedetti Michelangeli, in città. Gli incontri, promossi dal Comune e organizzati con Casa della Memoria e Fondazione Micheletti, sono ispirati al 50° della strage di piazza della Loggia.

Ignazi, docente di Politica comparata all’Università di Bologna, ha dedicato diversi studi alla destra italiana ed europea. A Brescia ha spiegato che le spinte eversive da cui ebbe origine la strage si innestavano su una cultura democratica ancora segnata da elementi di fragilità; tratti che lo studioso vede riemergere nel presente.

Professor Ignazi, in quale contesto nacque la sfida del terrorismo di destra?

In quegli anni venne rimessa in discussione la forma democratica, mai accettata da parte della destra neofascista. L’occasione derivò, da un lato, dalla crisi del Movimento sociale italiano a fine anni ’60, il suo isolamento e la sua difficoltà a rappresentare quel mondo, che decise di muoversi autonomamente. Si aprirono le porte a impulsi più distruttivi. L’altra causa è la forte radicalizzazione politica dovuta ai movimenti sociali di quel periodo.

Lei parla di «sfida a una democrazia fragile». Perché?

Le culture politiche emerse nel dopoguerra (la cristiano-democratica e la comunista), in maniera diversa, sia ben chiaro, non avevano molta confidenza con le istituzioni democratiche rappresentative e i principi liberali. Rispetto a questi, la cultura cristiano-democratica era diffidente, quella comunista, ostile. Le forze liberali di tradizione "risorgimentale" erano marginalizzate. Questo, in un Paese uscito da 20 anni di fascismo sorretto da un forte consenso, rendeva difficile metabolizzare con forza la democrazia e i suoi istituti.

Esponenti della destra estrema erano anche nello Stato?

È il tasto più dolente. La scelta fatta nel Dopoguerra fu di evitare l’epurazione di gran parte delle branche dell’amministrazione pubblica. Rimasero tanti con storie di appartenenza e legami col fascismo. Per anni hanno improntato della loro cultura vari settori dello Stato. C’è dunque stata anche una sorta di protezione o collaborazione, con le frange più eversive, e questa è una realtà terribilmente amara.

La democrazia ha vinto. Pagando un prezzo?

Il prezzo è connesso al fatto che la scoperta di apparati dello Stato conniventi con azioni anti-istituzionali e terroristiche ha ulteriormente indebolito la fiducia di diverse componenti della società nei confronti del sistema politico. Queste componenti sono state, in quegli anni, incanalate in gran parte nell’opposizione di sinistra, ma sono state anche un alimento fortissimo del terrorismo brigatista.

La nostra democrazia è ancora fragile?

Vedo un deficit culturale di lungo periodo, rinvigorito dal 1994 con espressioni diverse della stessa difficoltà di affermare i principi liberali. La vittoria della destra è oggi anche sintomo di un altro deficit democratico, espresso dal governo Draghi: il ricorrere a un governo di tutti in una situazione inutilmente drammatizzata, eliminando la dialettica tra i partiti, ha facilitato la vittoria di chi denunciava la presenza di un establishment che domina su tutto.

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