La neve «dizimbrìna» e il cuore «lizimbrì»

Ma voi dite lizimbrì con la elle o dizimbrì con la di? Dicembre che si chiude porta via con sé un nuovo giro di calendario («Töcc i àgn en pàsa giü» mi diceva mio nonno dopo averne contati parecchi) ma non porta via la capacità del nostro dialetto di dar sempre vita a mille e mille variazioni impercettibili, colmando lo spazio tra il certo e l’incerto.
Un vocabolario autorevole come il «Lessico bresciano» di Pasquini considera i due termini come variazione l’uno dell’altro fissando per entrambi la traduzione italiana in «fragile, gracile». Che dizimbrì (con la di) sia legato al mese di dezèmber sembra abbastanza assodato: c’è anche il vecchio proverbio secondo il quale «la néf dizimbrìna tre més la confìna» (la neve che cade in questi giorni ce la teniamo fino a febbraio). L’aggettivo lizimbrì (con la elle) è più facile sentirlo per descrivere ad esempio una giacchetta leggera leggera, un attrezzo poco o nulla affidabile. Ne ricordo una ricorrenza addirittura struggente nella lirica di Aldo Cibaldi: «Che lastra lizimbrìna l’è ’l mé cör: / dìga ’na góga chè ghè fì öna crèpa».
A me il termine lizimbrì (con la elle) risuona addirittura vicino a lìz, cioè consunto, liso (e in greco antico liscio si dice lissòs). E poi perché - mi chiedo - una cosa dicembrina dà nel nostro dialetto l’idea della fragilità? Che c’entri qualcosa la storia di quel bambino nato nel freddo dicembrino e scaldato solo dal fiato di un bue e di un asinello? Eppure quella è la fragilità più potente della storia dell’uomo. Ma voi dite lizimbrì con la elle o dizimbrì con la di?
Ne riparliamo nel 2019. Tanto «töcc i àgn en pàsa giü».
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