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Giovanni De Luna: «Sono sospeso tra l’essere uno storico e un testimone»

Nicola Rocchi
Già docente di Storia contemporanea all’Università di Torino, negli anni Settanta era un militante di Lotta Continua: è stato ospite del ciclo di incontri «La città ferita» dedicato al 50esimo della strage di piazza della Loggia
Giovanni De Luna in collegamento con l'Auditorium San Barnaba
Giovanni De Luna in collegamento con l'Auditorium San Barnaba
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«Sono sospeso tra l’essere uno storico e un testimone». Giovanni De Luna, già docente di Storia contemporanea all’Università di Torino, negli anni Settanta era un militante di Lotta Continua. Tra storia e memoria è oscillato dunque l’intervento che ha fatto il 12 marzo nel ciclo di incontri «La città ferita» dedicato al 50esimo della strage di piazza della Loggia, promosso dal Comune e curato dalla Fondazione Calzari Trebeschi in collaborazione con Casa della Memoria e Fondazione Micheletti.

Nell’auditorium San Barnaba, De Luna ha parlato della reazione di movimenti e società civile di fronte all’eversione: «Da testimone – ha detto – ho il vantaggio di aver vissuto dall’interno quegli eventi e di averne respirato l’aria; lo storico arriva dopo anni, con la ponderatezza e la serenità del giudizio».

Professor De Luna, nella storia dei movimenti c’è un anno simbolo, il 1968…

Non c’è dubbio che quello fu l’inizio. In Italia, il ’68 portò un clamoroso svecchiamento delle nostre istituzioni e dei nostri quadri mentali. Si affermò nel costume prima ancora che nella politica: l’Italia era cambiata, non era più la nazione arcaica, contadina, paleoindustriale, conformista che aveva preceduto il boom economico. Questa mutazione trovò nel ’68 la sua sanzione politica. Gli effetti si sentirono per tutta la prima metà degli anni ’70, nella spinta riformatrice che investì il Paese.

Cosa interruppe questa spinta?

Il problema vero di quegli anni è la violenza. Questo progetto, che diede i suoi risultati migliori in un contenitore riformista, fu tuttavia alimentato da una tensione rivoluzionaria molto forte. Quei giovani, in realtà, non volevano fare le riforme ma la rivoluzione. Finché il conflitto resta fisiologico è il sale della democrazia, ciò che le permette di svilupparsi e crescere. Ma la violenza patologica uccide questi fermenti: le Brigate Rosse si autodistrussero e così il movimento, nel momento in cui si scelse la violenza come forza strategica.

Che effetto ebbero le stragi su questo processo?

L’effetto, purtroppo, fu proprio quello di far passare il movimento da una fisiologia a una patologia della violenza. Ricordo benissimo che inizialmente la violenza era intesa in senso difensivo: difendersi dai fascisti, dalla polizia... Dopo la strage di piazza Fontana del 1969 si cominciò a dire: ma perché dobbiamo aspettare, reagiamo prima. Questa fu l’anticamera della scelta terroristica.

Si parlò di «strage di Stato»…

Le stragi, con le loro complicità e connivenze, allontanarono la nostra generazione dalla democrazia. Nessuno credeva più nel sistema democratico. Norberto Bobbio ci aveva insegnato che c’è una fisiologia del segreto di Stato, a tutela dei cittadini; e una sua patologia, quando l’operato delle istituzioni diventa oscuro, pieno di intrighi e misteri. Quella era una democrazia inquinata, e ci allontanò. Fu un errore tragico, perché la democrazia andava invece difesa nel senso dell’antifascismo e della Costituzione. Ho il forte rimpianto di non aver capito allora che la democrazia non era perfetta, ma era comunque l’unica forma di governo che potesse consentire il progresso.

Lei ha osservato che già a metà degli anni ’70 cominciò «il ritrarsi dalla militanza e dall’impegno»...

Lo dico col senno di poi, perché allora forse soltanto Pasolini se ne rese conto. Faccio questo esempio: una settimana dopo il rapimento di Aldo Moro, nel marzo 1978, fu proiettato nei cinema «La febbre del sabato sera». L’anno successivo, il numero delle discoteche aumentò del 150%. Era già nata un’altra Italia che voleva divertirsi e arricchirsi, disinteressata alla politica, alla rivoluzione e alla violenza.

Si è formata una memoria pubblica di quegli anni?

Sì, ma non è una memoria condivisa. Lo vediamo oggi: la destra al governo ha una grande ansia di rivincita anche sul piano della memoria, perché allora vennero schiacciati dalla loro complicità sulle stragi e adesso cercano di condannare gli anni ’70 come segnati solo dalla violenza del terrorismo. Non è così, furono anche pieni di fermenti da cui non si può prescindere, che sconvolsero tutto il vecchio apparato ereditato dal fascismo.

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