Tu mi vendi il peggio? Io preferisco il pesce

Prepararsi la cena districandosi tra «e» larghe e strette
AA

Potenza ingannevole di una piccola «e». Un’unica e univoca lingua bresciana non esiste: il dialetto è piuttosto un animale che si adatta quasi biologicamente al territorio in cui vive, e così il leggero variare nella pronuncia di una vocale, anche solo a una manciata di chilometri di distanza, può diventare causa di giocosi malintesi. Lo racconta sorridendo la poetessa Franca Grisoni.

«Noi a Sirmione il pesce in dialetto da sempre lo chiamiamo pés con la e stretta. Tanto che chi a lungo ha gestito la pescheria del paese la conosciamo come la Piera del pés». Tutto bene finché si resta nella penisola. Ma quando la pescheria locale è chiusa e ci si sposta solo a Desenzano cominciano i problemi. I desenzanesi, come la maggior parte degli altri bresciani, in dialetto il pesce lo chiamano pès con la e larga. Che però ha lo stesso identico suono della parola pès che significa peggio.

«Immaginatevi un po’ il dialogo - racconta Franca Grisoni -. Nel negozio, io sirmionese dico Vèndem el pés, la pescivendola desenzanese mi risponde De pés en vendom mìa, a Desensà vendom el pès, io chiudo A Sirmiù el pès el la compra nissü». Insomma, nessuno uscito di casa per comperare un bel coregone si accontenterebbe di rientrare con un bel peggio da cuocere al cartoccio. Il mondo dei pescivendoli, peraltro, è spesso teatro di calembour. Nella sua canzone «Pescheria» Piergiorgio Cinelli canta (vado a memoria): «Pès che rìa en pescherìa / pès che rìa e pès che va / l’è un pès che ’l pès rìa mìa ché en pescheria». Non so che dire: mèi isé che pès.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia