Dialèktika

Ttra sbròf e archècc l'eco della caccia

Un’attività che fa parlare di sé nella lingua bresciana
È rimandata l'apertura della stagione venatoria - © www.giornaledibrescia.it
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Pum! La stagione della caccia - coi suoi schioppi e le sue polemiche - torna a segnare il ciclo dell’anno bresciano. Comunque la si pensi, l’attività venatoria ha da sempre segnato la quotidianità - e il linguaggio - della nostra terra. E infatti il dialetto bresciano ha mille modi di dire legati alla caccia.

Penso ad esempio ad un’espressione come stà ’n müda che indica il rimanere al buio, proprio come gli uccelli da richiamo che in estate vengono custoditi in stanze oscure perché cantino in autunno. Oppure l’essere inquieti come cà de légor, segugi da lepre in perenne movimento. O ancora catà sö i sò archècc, il raccogliere i propri archetti (barbare e illegali trappole a molla che scattano attorno alle zampe di codirossi e cince) come metafora dell’andarsene.

O infine il gesto di sbrofà, cioè di bötà föra el sbròf, una specie di volàno addobbato di stracci e penne che simuli il volo di un rapace e che spinga gli uccelli che stanno beccando nella radura di una uccellanda a volare verso le siepi del perimetro. Dove li aspettano le reti.

Ma la ricchezza linguistica maggiore sta nel verbo casà che in bresciano traduce l’italiano «cacciare» (dal latino «captiare», cioè catturare, inseguire, pressare) ma che apre anche a significati diversi a seconda dell’avverbio cui si accompagna. Così abbiamo casà föra de càsa (cacciar fuori), casà adòs o casà dré argóta a argü (affibiare un peso sgradevole, anche se solo simbolico), casà dènter (spingere dentro), casà zó (ingollare a forza), casà vià (scacciare con decisione), andà a casàs en vargölöc (cacciarsi in un anfratto). E io, a parlare di un tema da sempre così divisivo, che saròi endàt a casà a mà...

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