Tra ambiàs e mocàla: un tempo per bollire

Il teologo, l’umanista e la pasta in cottura
Quando smettere la cottura? - © www.giornaledibrescia.it
Quando smettere la cottura? - © www.giornaledibrescia.it
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«A volte è più importante saper smettere che saper cominciare». L’esortazione del teologo portoghese José Tolentino Mendonça - che a ben vedere meriterebbe maggior riguardo perché ha a che fare nientemeno che col senso della vita - mi è tornata beffarda alla mente giorni fa davanti a una pentola di pasta in ebollizione: quando smettere la cottura? In dialetto bresciano cominciare si può dire cumincià o anche tacà, ma a me piace particolarmente ambià. Iniziare a dirigersi verso qualche luogo diventa il riflessivo ambiàs, mentre «àmbiet föra» lo si dice a chi deve sbrigarsi.

Io ci sento dentro un avviare, un ad-viare. Sarà per questo che è ben presente nelle nostre lande anche la dicitura envià («adès envìa mìa sö en mulì...» si dice per invitare qualcuno a non sollevare polveroni). Intrigante anche la traduzione bresciana di smettere: a chi deve por termine a qualcosa dici làsa lé, empièntela lé, dàga ’n tài. Ma io sono particolarmente attratto da móchela. Qui il verbo mocà è l’italiano mozzare e nei nostri boschi significa tagliare la cima di una pianta. Cioè troncare. Qualcosa o un’azione. A inizio ’500 il Folengo ricordava che mocare era sia nasum purgare (ripulirsi dal muco) sia mocare lucernam (smoccolare, tagliare la parte bruciata di uno stoppino). Ma intanto la pasta cuoce. Quando smettere? Perché forse anche la bollitura dell’acqua ha a che fare col senso della vita. Sarà pur vero che talvolta bisogna sapersi sbrigare - «sta’ mìa lé a fàla bóer tànt...» - ma altre conviene semplicemente mettersi a lato tranquilli e rispettare il tempo naturale delle cose. Insomma: «Té, làsa bóer...». 

 

 

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