Quando la masséra non è proprio «da bé»

Il nostro lettore Roberto di Ghedi dice che la parola malmadür gli è tornata in mente dopo aver letto il nostro Dialèktika
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«Ma cosa significa malmadür? Me lo diceva sempre ridendo mia nonna quando combinavo guai». Il nostro lettore Roberto di Ghedi dice che la parola gli è tornata in mente dopo aver letto il nostro Dialèktika di domenica scorsa, in cui ci siamo occupati del termine malmustùs. In effetti anche malmadür fa parte di quella lunga serie di parole che il nostro dialetto costruisce partendo dal prefisso dell’avverbio mal- e facendo poi seguire un secondo termine. E così malmadür altro non è che l’italiano «immaturo».

La sequela dei termini dialettali costruiti in questo modo è nutrita e gustosa. Vi troviamo - ad esempio - malmaridàda (mal-sposata), malengàmbe (di persona traballante e instabile), malenguàl (storto, irregolare), malmöer (di persona che non si muove volentieri, che non lascia mai la casa o il paese) e soprattutto l’onnipotente verbo malfà che significa quasi sempre «riuscire male» o «faticare» in qualcosa («Con chèl podèt ché che ghe manca ’l fìl, l’è malfà a scalvà i mùr»).

La tradizione di questo tipo di parole è davvero molto antica. Secoli fa il termine malnetà (mal-pulire, quindi lordare e imbrattare) risuonava tanto nel pantagruelico «Baldus» di Teofilo Folengo del 1517 quanto nella «Massera da bé» (1554) di Galeazzo degli Orzi, riconsegnata ai lettori bresciani da Giuseppe Tonna. E proprio a proposito di buone massére torna in mente quel detto secondo il quale alla casalinga che invece non è all’altezza delle aspettative vengono attribuiti - guarda caso - «töcc i vése dèla malmaséra».

 

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