La trama, l'ordito e il cucir parole

Mentre mi regalo il caffè del mattino in un bar franciacortino che gustosamente si chiama «La chicchera», l’occhio intreccia una lavagna sulla quale il gesso ha vergato un vecchio proverbio in bresciano: «Parì e no éser l’è come urdì e no tèser». L’apparenza senza sostanza è come fare un ordito ma non la trama: non sarà mai un tessuto. È come dire che non è tutto oro quel che luccica.
Potente risuona qui la vocazione bresciana per la solidità delle cose, la predilezione assegnata a ciò che è concreto e affidabile piuttosto che all’appariscenza effimera.
Dall’universo tessile, a dire il vero, il dialetto bresciano prende più d’una metafora. La prima che mi viene in mente è l’espressione «el g’ha gna fil gna fònd gna cuzidüra» usata per indicare una situazione totalmente spampanata. E sempre l’inutilità dell’operare è ciò che viene evocato dall’adagio «chi fa la uciàda sensa gróp, el cus per negót» (chi dà un colpo di ago senza il nodo a fondo filo rischia di cucire inutilmente). Due qui i termini che mi colpiscono.
Il primo è ùcia (diffusissimo nel Bresciano anche come gùcia, oppure ócia o écia) che ha una storia lunga: tutto nasce con il latino classico «acus» (ago) che nel latino tardo diventa «acucula» (quindi una forma diminutiva e femminile), nell’italiano antico «aguglia» e in castigliano «aguja». Il secondo è gróp, il nodo. Qui la radice guarda più a nord: al gotico «kruppa» (massa inestricabile) e al celtico «gròb» (unire strettamente). Sempre da qui viene anche l’italiano «gruppo».
La parlata bresciana: questa sì è un tessuto con trama e ordito!
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