La grigia belegòrgna e il brodo per l’anima

Malumori novembrini in una lingua né irsuta né ispida
Minestrone - © www.giornaledibrescia.it
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E poi dicono che il dialetto è una lingua «irsuta e ispida». Che non ha né la sensibilità né il vocabolario per definire gli stati d’animo. A me pare invece che una lingua sia rozza solo quando rozzi sono il cuore di chi la parla o l’orecchio di chi la ascolta. Perché, per chi le cerca, di sfumature il bresciano è ricco.

Da due biancocrinite vicine di casa ho rubato frammenti di conversazione. «Gh’è ’giràt el tèmp - racconta una -. Mé a noèmber ma vé sèmper ’na belegòrgna...». Definire belegòrgna. Non è solo una nóna: alle mie orecchie «’ìga adòs la nóna» significa denunciare una fiacchezza più fisica che spirituale. Non è nemmeno quello che in Alta valcamonica definiscono el biligòt: questo termine (che risuona come un parente sonoro di bilìne, le castagne secche, ma che nulla ha a che fare con queste) è usato per indicare l’intontimento di chi sta troppo, magari appisolato, vicino alla stufa. Insomma: il biligòt sembra piuttosto cugino dei baligurdù (o balurdù), i capogiri.
La belegòrgna non è neppure identica alla gnàgnera: quest’ultima è più un diffuso malessere fisico, una febbriciattola, una pigrizia, una mìga-’òia. La belegòrgna è proprio una malinconia, un incupirsi lento, una tristezza inquieta, un só-gna-mé.

Non si conosce la causa: possono bastare un cielo grigio, un mancato incontro, un gesto scortese, un’attesa rivelatasi vana. Però si può mandarla via. «’Àrda - confessa la seconda vicina -: mé a noèmber la séra ma sa prepàre sèmper una bèla minestra calda. La va zò che la cunsùla i òs». Una minestra che consola, un fluido che scaccia artriti e malumori, un brodo caldo per l’anima. Altro che «irsuta e ispida».

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