Storie

La certezza della préda e la balòta vagabonda

Sassi, pietre e altre definizioni al centro dell'appuntamento con la rubrica dedicata al dialetto
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Cosa troviamo sotto un sasso quando lo spostiamo? Magari l’apertura di un cunicolo dimenticato, che come nei castelli del medioevo conduce sottotraccia verso regioni linguistiche solo apparentemente lontane. E sotto le molte parole che il dialetto bresciano usa per dire sasso di cunicoli ce n’è più d’uno (temo non ci basterà una sola puntata per percorrerli tutti).

Il termine più nobile che i nostri vecchi usavano per indicare il sasso è senza dubbio préda, chiaramente legato all’italiano pietra e giù giù in profondità fino al pétra di greci e latini. A me la parola préda dà proprio la sensazione della stabilità, del fondamento solido su cui si può costruire. Più instabile (a meno di non essere ben cesellato nella pavimentazione di una piazza o di una via) è invece il cógol, che è il ciotolo tondeggiante di fiume. Qui il termine rimanda al tedesco kugel che vuol dire palla (chi non ha mai gustato le Mozart kugel di Salisburgo?) e allo slavo kugla (in Croazia le palline di gelato sono le sladoled na kugle).

Al tondo, alla bàla, richiama anche il termine balòt. E qui, sotto una rolling stone, troviamo la storia di una piccola violenza linguistica. Eccola: a Provaglio d’Iseo c’è un masso vagabondo di arenaria rossa che i ghiacciai hanno portato giù dall’Adamello. La Regione milanocentrica lo cita nel suo sito col termine Balutòn (suono francamente inascoltabile per noi bresciani) mentre in paese si chiama più semplicemente Balòta. Non esiste un solo dialetto bresciano. Men che meno un solo dialetto lombardo.

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