L'immaturo parlà picù e i francesi del 1512

Quando si tratta di dar voce ai ricordi i lettori di Dialèktika sanno benissimo come farsi capire. E lo hanno dimostrato ancora una volta dopo che - nella rubrica di domenica scorsa - avevo chiesto di aiutarmi a tradurre l’espressione «parlà picù». Dalla Valtrompia alla città, dalla Franciacorta alla Bassa decine le risposte. Il «parlà picù» è il linguaggio immaturo dei bambini che storpiano le parole. Ma anche il parlare vezzeggiato che zie e nonne usavano per rivolgersi ai piccolini. Per i più grandicelli, però, mantenere una pronuncia infantile è segno di immaturità. Di qui l’esortazione frequente: «Desmèt de parlà picù». L’esortazione a «parlà ciàr».
In molti sottolineano: il «parlà picù» non è il tartagliare. Quello viene indicato in dialetto bresciano da altri termini. Innanzitutto tartaià. Il verbo italiano «tartagliare» è documentato secondo Tullio De Mauro a partire dalla metà del Quattrocento. E proprio all’inizio del Cinquecento ha vissuto il matematico bresciano Niccolò Fontana, che si faceva chiamare Tartaglia dopo che nel sacco di Brescia del 1512 la soldataglia francese al comando di Gastone de Foix gli aveva fracassato mascella e palato causandogli un permanente difetto di pronuncia.
In bresciano «tartagliare» si può dire - tra l’altro - conchetà (oppure conchezà ed encocaiàs). Ma anche, in alcune zone, basgiotà. Due verbi molto diversi, ma che hanno qualcosa in comune. Il primo sembra legato al termine conchèt, la ciotola di legno in cui si beve(va) il vino. Il secondo alla parola bàsgia (o bàsia), la bacinella. Insomma: due contenitori di liquidi. Cos’abbiano a che fare queste ciotole con la pronuncia è per me un mistero (anche se per fortuna non doloroso).
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