Il gombèt, olio santo e dolore maledetto

Quanto vale un singolo ingranaggio del nostro corpo? Basta che si ingrippi per capirlo davvero
Il gomito, in dialetto bresciano gombèt
Il gomito, in dialetto bresciano gombèt
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Quanto vale un singolo ingranaggio? Basta che si ingrippi per capirlo davvero. Oppure basterebbe prestare ascolto a ciò che la lingua da sempre ci racconta. Anche se spesso lo fa ricorrendo a metafore e similitudini.

Prendiamo ad esempio il gomito, quello che il dialetto chiama gombèt (termine che come per l’italiano vien giù dritto dritto dal latino cùbitus e che suona cugino stretto del volgare arcaico gòmbito). Pensate quanta vita passa da quella testarda articolazione. Pensate di quante cose può farsi simbolo. Può diventare ad esempio il segno di una formidabile volontà di lavoro (tiràs sö le màneghe fìna al gombèt) e raccogliere quindi un meritato plauso (l’òio de gombèt l’è sant e benedèt).

Ma anche la scarsa vena nel far andare le braccia passa metaforicamente di lì: ìga el gombèt ladì (dove ladì sta per morbido, senza nerbo). In realtà il gomito ha un ruolo importante anche nel rapporto che instauriamo con gli altri.

Quando vogliamo richiamare l’attenzione di un amico senza che altri se ne accorgano possiamo dàga de gombèt, ma se invece chi abbiamo vicino è un nemico e il nostro obiettivo è invece procurargli un dolore (senza cattiveria, si intende...) allora potremmo assestargli una bèla gombetàda. Così impara. Non solo. È pur vero che quando si parla di dolori - come ricordava la nonna della nostra lettrice Stefania - ognü el sènt el sò, ma c’è chi assicura che lì da quelle parti se fa male fa male davvero: dulùr de gombèt, dulùr de maledèt.

Come consolarsi? Resterebbe la possibilità di berci su. Ma neppure troppo, perché se l’articolazione si è ingrippata anche il gesto di alsà el gombèt diventa attività dolorosamente preclusa. Ahi.

 

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