Il dopo Covid sia come un attecchir di rose

«Oh, mi raccomando: da lunedì si torna a messa...» Sulla soglia della canonica il parroco sollecita sorridendo l’anziano fedele che passa in bici. Che da sotto la mascherina con pronta arguzia replica: «Adès n’aró mìa colpa mé se per du més la mèsa l’óm tacàda vià...».
L’espressione dialettale «tacà la mèsa o l’ofése a un cavécc» è già riportata nel Vocabolario realizzato nel 1759 dai seminaristi bresciani, che la traducono con il toscano «marinar la messa o l’offizio». Attaccare come appendere, quindi. Però il verbo bresciano tacà - a dire il vero - presenta quanto meno un doppio filone di significati. Perché accanto a quello che porta all’italiano aderire (il bambino che l’è sèmper tacàt a la sò màma, il brasato che bisògna giràl per mìa fàl tacà, il giovanotto che trovando una fidanzata facoltosa si prepara a tacà ’l capèl) c’è il filone che porta all’italiano cominciare, avviare (la legna che la tàca föc, i due bulli che i tàca béga, la campanella del santuario che la tàca a sunà).
Secondo il linguista Mario Alinei (profondo conoscitore di dialetti, tra le altre cose è stato presidente dell’«Atlas Linguarum Europae» presso l’Unesco) questa ambivalenza trova riscontro nella comune origine dei termini italiani attaccare e attecchire.
Insomma, la spiegazione starebbe nella pratica di giardinieri e frutticoltori: la talea, che facendo attaccare un germoglio a un tronco mediante una tacca farebbe così attecchire una nuova pianta. Non ho gli strumenti scientifici per valutare questa analisi, ma devo dire che mi piace moltissimo: il dopo-Covid come una rosa. Speróm che la tàches...
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