Fra saàte volanti e cedri da affibbiare

«Oh, vuoi un cédro?» La memoria rimbalza alle scuole medie: c’era sempre il bullo di turno che aspettava l’intervallo per riuscire ad attaccar briga in cortile. Alle mie medie uno dei più attivi era un pluriripetente che arrivava a scuola ogni mattina con una bici diversa. L’uso gergale della parola cédro al posto dell’italiano «pugno» mi è tornato in mente leggendo nei giorni scorsi la notizia del passaggio della leggendaria Cedral Tassoni di Salò all’azienda trentina Ferrari.
In realtà - tra gergo di strada e dialetto doc - i ragazzi bresciani avevano millanta e più termini per evocare il pugno, la botta violenta. Accanto al tranquillo pögn c’erano gli evocativi cabàno, lèca, bòta, chèco, papìna, pàca... C’erano poi le parole che facevano riferimento al mezzo contundente che poteva essere utilizzato per inferire il colpo. Ecco allora la legnàda (da legno), la stangàda (da stanga), la bacàda (dal latino «baculus» che indicava il bastone), el saatù (da saàta, antico proiettile utilizzato dalle mamme per attingere il figlio in fuga).
C’erano termini sorridenti come gratàda, cresmàda (lo schiaffo del Vescovo alla Cresima), coneciàda (lo scappellotto sulla nuca), scöfiòt. E poi c’è la pèta. Viene dal verbo latino «peto» che significa «richiedere» ma anche «assalire», «cercar di colpire». In realtà in dialetto bresciano il verbo petà significa anche «picchiar lì», affibbiare. Da cui la canzoncina irriverente: «Entànt che la màma la fa le polpète, mé ghe la pète, mé ghe la pète / Entànt che la màma la fa le polpète mé ghe la pète en mès a la cà». Ma qui apriremmo un altro capitolo.
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