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Endurmintù forse, endormét proprio no

Il confine tra aggettivo e offesa è davvero fragile
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«Bröt endormét, sta’ atènto có la bici». Il rimbrotto del passeggiatore con cui condivido la ciclopedonale mi colpisce come una schioppettata. Non solo perché sulla bici ci sono io, ma perché quel termine endormét - lo potremmo tradurre con addormentato - sa proprio di bocciatura.

È davvero straordinario come a volte il confine tra l’aggettivo e l’offesa sia così fragile. Provo a spiegarmi. Pensate di parlare di un vostro figlio, adolescente luce dei vostri occhi: di lui vi sentireste tranquillamente di dire sorridendo che «l’è un endurmintù», cioè un dormiglione, ma da padre mai vi faranno sostenere pubblicamente che «l’è un endormét», cioè un tontolotto.

L’ambiguità gioca anche nell’opposto del dormire, cioè nell’essere svegli. Già nel Cinquecento la sapida Flòr da Cobiàt dice del suo «putèl» che è «aspèrt», cioè sveglio. «Despèrtet föra» si sente dire ancora oggi in alcune zone della nostra provincia per invitare qualcuno a darsi una svegliata, esortazione in cui risuonano sia lo spagnolo despertarse (svegliarsi) sia la radice latina di expertus (uomo d’esperienza e quindi capace). Altro modo bresciano per dire «svegliati» è «desèdet». «De-sedàs», cioè uscire da uno stato di sedazione, di intorbidimento. Proprio quello in cui cadi quando i medici ti sedano, cioè ti danno «la sdòrmia».

Insomma: per non essere definito un «endormét» bisogna certo svegliarsi, ma in questo caso forse «leà sö del lèt» potrebbe non bastare. Nel dubbio continuo a pedalare. «Endormét ta sarét té», mugugno a denti stretti. Col pedone alle spalle, ormai lontano.

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