Capitan Giovannino e le Parche distratte

Un’antica filastrocca al suono della campana
Fili, ago e cucito (simbolica) - © www.giornaledibrescia.it
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Din don. L’ancestrale due quarti del campanile entra dritto dallo stomaco e rievoca filastrocche da bambini.

«Din don, campanòn, gh’è trè ’èce de dré del dòm...». Anche il dialetto bresciano ha la sua mitologia. I Romani, come i Greci prima di loro, avevano le Parche, tre figure femminili che sovrintendevano all’esistenza di ognuno: la prima filava il refe della vita, la seconda tesseva la trama e l’ordito del tuo andare in questo mondo, la terza recideva il filo quando era giunto il tuo momento. Non prima, non dopo.

Din don. Un due quarti ancestrale. La mitologia delle nostre nonne era invece animata dalle «trè ’èce» che abitano un antro scuro dietro al duomo. Sembra vogliano agire come le inesorabili Parche, ma per fortuna le nostre non sono così ligie e la tragedia derapa presto in sorriso. In una versione della filastrocca infatti «giöna la fìla, giöna la cùs» ma per fortuna la terza «la fa i capèi de spùs / de regalàghel al sò murùs». E già che siamo riusciti a distrarre il fato, a questo punto non ci fermiamo più.

Così scopriamo che questo moroso è tale Gioanì. Di cui la filastrocca racconta: «Gioanì Gioanèla / capitàno dèla guèra / capitàno dei soldàcc / Gioanì l’è un majagàcc». Ho sempre trovato fantastico come anche un marziale comandante possa perdere tutta la sua austerità se pensato come un affamato «mangiagatti». Ma la filastrocca aveva ancora in serbo il gran finale. Perché «töcc i gàcc i g’ha la cùa... (qui serve la pausa sapiente della nonna recitante) ... mèrda mèrda en bóca tùa».

Din don dan, ora persino la campana sembra accennare un sorriso. L’ancestrale due quarti è battuto.

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