Bassa

«Mio padre è a casa malato di Covid-19, ci sentiamo abbandonati»

La storia di una famiglia della Bassa solleva il tema dell'assistenza domiciliare e dei tamponi per i familiari dei malati
Un paziente malato di Covid-19 - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
Un paziente malato di Covid-19 - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
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«Signora, ma perché lei vuole a tutti i costi fare il tampone?». Una domanda che lascia senza parole, soprattutto se da due settimane vivi a stretto contatto con tuo padre, malato di Covid-19, se temi il contagio e se hai paura di essere a tua volta un potenziale pericolo per gli altri, quando tornerai al lavoro.

È l’altra faccia dell’emergenza coronavirus, quella che non riguarda le corsie d’ospedale, ma le case private in cui si cerca di assistere i malati come meglio si può, chiedendo consigli anche agli amici medici per valutare la situazione in tempo reale. È la storia che ci racconta Anna da un paese della Bassa bresciana dove vive con la madre, il padre e il fratello. 

«Ci sentiamo abbandonati dalle autorità sanitarie - dice -. Mio padre ha 73 anni, ha una polmonite interstiziale con la diagnosi di Covid-19. L’abbiamo dovuto fare ricoverare in ospedale per avere il test, purtroppo si era aggravato e non potevamo più tenerlo a casa. Ma dopo cinque giorni è stato dimesso e ora abbiamo tutti paura».

La vicenda inizia il 26 marzo con i primi sintomi, a partire dalla febbre alta. Il sospetto è che si tratti di coronavirus, ma ovviamente non c’è la controprova, dato che nessuno visita a casa il padre di Anna e che di tamponi non se ne parla.

«Su consiglio del mio medico mi sono messa in quarantena per assisterlo, anche per salvaguardare mia mamma - racconta la donna -. Abbiamo allestito una stanza e un bagno solo per mio papà, mentre nel resto della casa conviviamo in tre, senza sapere chi è positivo e chi no».

Quasi una settimana dopo, il 31 marzo, Anna insiste al telefono con il medico del padre fino a ottenere la visita a domicilio da una dottoressa dell’Usca, le unità di Ats Brescia che si occupano di seguire i pazienti non ospedalizzati (nove medici in tutta la provincia, esclusa la Valle Camonica che risponde a un’altra Ats).

«Mio padre stava male, aveva la febbre alta. La dottoressa ci ha raccomandato di dargli l’ossigeno e di controllare la saturazione perché se fosse peggiorato bisognava portarlo in ospedale. Abbiamo recuperato una bombola di ossigeno in farmacia, l’ultima disponibile, e abbiamo iniziato a usarla sapendo che se si fosse esaurita non ce ne sarebbe stata un’altra a breve».

Il giorno seguente la situazione peggiora, Anna si tiene in contatto con alcuni medici amici di famiglia e prova a monitorare il quadro clinico del padre. La sera il padre fatica a respirare: «Abbiamo chiamato il 112 e per fortuna sono arrivati rapidamente. È stato portato in ospedale a Brescia, dove è rimasto per quasi cinque giorni. Il tampone ovviamente era positivo. Dopo 72 ore senza febbre e dopo 24 senza bisogno del respiratore, nel pomeriggio di lunedì 6 aprile è stato però dimesso. Ora sta meglio, è a letto ma non è certo guarito. Capisco che in ospedale avessero bisogno di letti e non mi posso certo lamentare, ma ora avremmo bisogno di un aiuto a casa».

Cosa che però non c’è. «Ti dicono di indossare guanti e mascherine per proteggerti dal contagio, ad esempio, ma te le devi procurare da solo e non è di certo facile. Quando ho chiesto al nostro medico se potevamo ricevere una nuova visita da parte dell’Usca, mi ha risposto "bella domanda...". Ora io dovrei restare in quarantena fino al 16 aprile, in modo da aspettare 14 giorni dal momento in cui hanno accertato il contagio di mio padre, ma come potrei tornare al lavoro senza sapere se sono o no positiva?».

La questione riguarda Anna, sua madre e il fratello. Peraltro quest’ultimo ha dovuto lavorare mentre il padre stava male e ha interrotto le attività solo dopo la notizia del contagio. «Noi non sappiamo se siamo pericolosi per gli altri, se lo siamo per noi stessi, non si sa niente. Quando Ats ci ha chiamato per comunicare l’esito del tampone, l’operatrice era stupita del fatto che volessi il tampone a tutti i costi. Non posso uscire di casa, ma non posso sapere se sono infetta. Assurdo. Il 16 aprile è solo una data fittizia, come faccio a tornare al lavoro in sicurezza? Come faremo a sapere se mio padre sarà guarito davvero?». Domande a cui non c’è risposta. «L’unico aiuto che abbiamo avuto è stato in ospedale e prima dal 112. Ma a casa ci sentiamo abbandonati. Attorno vediamo cosa sta succedendo, è una malattia pericolosa. Non si possono lasciare le famiglie in queste condizioni».  

 

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