Brescia, nel sistema ormai corroso svetta l'onore di «Possa»

Si fa in tempo a lasciar traccia in 13 giorni? Ma soprattutto, è possibile farlo se in 13 giorni scanditi da due partite sono stati raccolti zero punti e quindi nei fatti la tua missione non è nemmeno iniziata perché voglia e idee hanno fatto scontro frontale con la realtà?
La risposta è sì: Davide Possanzini ha lasciato una traccia e la sua pur breve e anche dolorosa esperienza per quel che ci ha messo - tutto sè stesso - e quel che si è giocato - l’inizio carriera - non cadrà nell’anonimato che invece è la cifra del Brescia attuale e di un certo numero di suoi predecessori, che pure hanno sostato qui più a lungo, negli ultimi anni. È una questione di onore e dignità: li aveva nel suo bagaglio quando ha accettato un compito nel quale erano nascoste più insidie e trappole che possibilità di riuscita e li ha conservati al momento del suo addio.
Che è stato a testa alta: sarebbe anche potuto restare, gli è stato fatto capire, se avesse fatto un passo indietro su certe sue idee tattiche a partire dalla rinuncia di quella che è stata codificata come una difesa a tre - ma che in realtà, peraltro, non è nemmeno una difesa a tre - a scendere. Insomma, accettando qualche compromesso (forse, ipoteticamente) si sarebbe potuto «allungare la vita».
Ma non ha accettato perché, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, per provare a rianimare la squadra ha fatto leva su un patto non scritto di trasparenza e lealtà. Che non ha tradito rimanendo fedele al gruppo, nonché a se stesso. Nonché al Brescia: a quel che per lui il Brescia è stato, è, e per sempre sarà. E a quel che per il Brescia lui è stato, è, e per sempre sarà. Si chiama rispetto per la storia e vale a riempire di significato la definizione di «bandiera».
Calpestata, eppure non sgualcita e in grado di sventolare ancora alta: perché «Possa», non si è pentito della scelta fatta. Proprio perché ci ha creduto anima, corpo e testa. Sarebbe riuscito a salvare il Brescia? È stato giusto puntare sulla svolta giochista? Non c’è stato nemmeno il tempo di capirlo: perché davvero si può dare un giudizio dopo 10 allenamenti e 2 partite? Lo stesso ragionamento che era valso per Aglietti.
Il fatto è che a rileggere tutto con il senno di poi, il forte sospetto è che così come Aglietti era stato scelto quale vittima sacrificale nell’ottica di un ritorno di Clotet, Possanzini (liquidato con un comunicato glaciale) era stato scelto come opzione low cost in luogo del ben più oneroso Cosmi perché Cellino in fondo si conosce e sapeva che sarebbe tornato più prima che subito a quella che da tempo era già l’idea che gli frullava in testa: affidare le chiavi di casa alla sua creatura Daniele Gastaldello.
Cacciato e tornato, cacciato e tornato, cacciato e tornato con sempre una finestra aperta per lui nel più classico degli schemi di un sistema collaudato negli anni, ma corroso dal tempo e dai tempi che cambiano sempre e che negli ultimi anni, col sopravvento della tecnologia, lo fanno a una velocità supersonica. Ergo, è un sistema ormai non più attuabile. Un sistema che prevede anche un saliscendi continuo per chi occupa certi ruoli.
È il caso del diesse Giorgio Perinetti, fino a una manciata di giorni fa ai margini - anche perché il suo ruolo non è di coordinamento di un’area sportiva nella quale ognuno è sempre andato per i fatti suoi badando a sé più che al bene comune - e ora tornato in auge nei panni di consigliere di riferimento (inascoltati, o scansati gli altri che erano contrarissimi al ribaltone) il quale ha sostenuto le argomentazioni contro Possanzini e, non avendo attecchito la sua idea Clotet, anche il nome di Gastaldello (nel quale la squadra vede il catalano e ingerenze presidenziali).
Tutto così incredibile, da non esserlo. Commentare l’ennesima pagina brutta di un libro che non promette il lieto fine è impresa. E se alla fine - come tutti nella nostra parte irrazionale che risiede nel cuore continuiamo a sperare - l’happy ending ci sarà, questa resterà comunque un’altra pagina brutta di un libro brutto. E un po’, in caso, lo si dovrà anche a 13 giorni nei quali abbiamo riscoperto (e lo ha fatto la squadra) il senso perduto di appartenenza e cura per il Brescia.
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