Belli Paci, figlio di Liliana Segre: «Trasformare il dolore in energia positiva aiuta a crescere»

Una persona non è mai un monolito ma la somma delle scelte che ha fatto e delle situazioni che, per nascita, caso o volontà, si è trovato ad affrontare.
Parlando con Alberto Belli Paci questo appare lampante, perché il manager e consulente milanese ora in pensione, a lungo «alfiere» del made in Italy nel mondo nel settore del tessile e dell’abbigliamento, porta con sé tante storie diverse, non ultima quella della madre, la senatrice a vita Liliana Segre. Ma andiamo per gradi.
Belli Paci, come si descriverebbe ai ragazzi coi quali si troverà faccia a faccia a Smart Future Brescia 24?
«Sono quello che si potrebbe definire il tipico "self made man", un uomo che si è fatto da solo innovando e andando in una direzione diversa rispetto alle strade già tracciate davanti».
Cosa intende?
«Dal punto di vista lavorativo ci sono stati due grandi spartiacque, due "scandali" in qualche modo. In primis cominciai a studiare Giurisprudenza, iscrivendomi alla facoltà per seguire le orme di mio padre avvocato. Decisi però di abbandonare gli studi e dedicarmi all’azienda di famiglia attiva nel mondo del tessile, classica Pmi gestita in modo tradizionale. La mia volontà era però quella di conoscere l’estero e altri mercati. Così decisi di lasciare la "comfort zone" in cui mi trovavo e di buttarmi in nuove esperienze professionali».
Dove l’ha portata questa volontà?
«Ho lavorato in molte società ma una delle esperienze più significative la riconduco alla Sergio Tacchini. Qui ho potuto, grazie anche alla visione dell’imprenditore, sviluppare le mie teorie, dove gioco di squadra, conoscenza e relazioni erano centrali. Ho cavalcato il concetto di stakeholder prima che questo entrasse nel linguaggio economico comune».
Ha quindi collaborato con aziende che hanno lanciato il made in Italy nel mondo.
«Esatto e ho lavorato tantissimo con l’estero (parla tre lingue oltre all’italiano ndr), in particolare in Giappone, realtà diversa dalla nostra ma che ho imparato a conoscere. E conoscere non solo mi ha permesso di raggiungere gli obiettivi prefissati ma anche di apprezzare questa cultura».
Ma lei, oltre a un manager, è anche figlio di Liliana Segre, una delle più importanti testimoni della Shoah. Come ha vissuto e come vive questo fatto?
«Per lungo tempo nella mia famiglia, tipico nucleo borghese milanese, non si è parlato di quanto accadde a mia madre, non ne sapevamo nulla, ma quel numero tatuato sul suo braccio non passava inosservato. Era come se ci fosse sempre qualcosa che aleggiava nell’aria, un’ombra presente ma sconosciuta».
Quando ha capito cosa aveva vissuto sua madre?
«La prima volta accadde a 14 anni a una cena, dove una persona mi domandò a proposito del numero tatuato "Ma non sai niente dei forni?". Dopo di allora il vero momento di svolta fu attorno ai 38 anni, quando mia madre, al tempo 60enne, decise di cominciare a farsi testimone di quanto accadde nei campi di sterminio. Fu in quel momento che appresi che tutto ciò che avevo letto e studiato sulla Shoah mia madre lo aveva vissuto in prima persona».
Ora il fare memoria di Liliana Segre è diventato anche parte di lei.
«Certamente. Sia io sia uno dei miei fratelli (sono in tre ndr) abbiamo affiancato mia mamma, soprattutto adesso che i suoi interventi pubblici si limitano a quelli collegati al suo ruolo di senatrice.
In particolare mio fratello si occupa dei rapporti istituzionali, io privilegio quelli con scuole, giovani e gente comune. Seguo anche iniziative quali quelle sulle pietre d’inciampo o come "Rondine Cittadella della Pace" ad Arezzo, dove ragazzi di diverse culture e nazionalità si incontrano e vivono insieme per superare le diffidenze e conoscere le differenze. Un grande passo avanti per me che all’inizio avevo paura a parlare davanti a 50 persone, ora non mi faccio problemi a discutere dinanzi a 1.500».
Cosa ha imparato da sua madre, testimone di un tale orrore?
«Che il dolore può essere trasformato in energia positiva. O ci si lascia abbattere, o si comincia a odiare oppure si alza la testa e si racconta ciò che si ha vissuto per imparare dagli errori del passato, per fare in modo che ciò che è stato non sia più e per conoscere, vero antidoto al terrore e alle discriminazioni».
Concetto che emerge anche in relazione a un altro fatto della sua vita, la perdita di sua moglie Francesca.
«La sua malattia è stata un momento difficile, anche perché lei è stata l’unica persona a credere in me al 100% e in ogni momento. Ricordo che, quando la scoprimmo, mia madre le disse di non pensare al futuro ma di concentrarsi sul momento, così che quello successivo sarebbe giunto senza accorgersene. La teoria del "mettere un piede avanti all’altro" evitando di proiettarsi troppo in avanti per evitare di aggiungere ansia ad ansia, è un modo di vivere che ha donato a mia moglie molto più tempo e che ha permesso a me di ripartire, oltre il dolore».
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