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In morte di Mario Rigamonti, 71 anni dopo il dramma di Superga

Quasi tre quarti di secolo fa moriva il calciatore bresciano del Grande Torino. Ecco come il collega Ersilio Motta ricordava quelle ore sul GdB
Mario Rigamonti, il calciatore bresciano morto nella tragedia di Superga del 1949 - © www.giornaledibrescia.it
Mario Rigamonti, il calciatore bresciano morto nella tragedia di Superga del 1949 - © www.giornaledibrescia.it
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Un anniversario al quale Brescia resta legata. Perché il 4 maggio è il giorno della strage di Superga. Il tragico incidente aereo avvenuto nel 1949 in cui morirono i giocatori del Grande Torino e in cui la Leonessa perse una delle più grandi espressioni del calcio nostrano: Mario Rigamonti, il calciatore cui deve il nome lo stadio di Mompiano, inaugurato dieci anni più tardi.

Oggi come 71 anni fa merita di essere celebrata la figura dell'atleta e lo sconforto che la notizia portò nella nostra città. Lo facciamo attraverso le parole del compianto collega Ersilio Motta, firma storica del nostro quotidiano, del quale riproponiamo l'articolo apparso sulle colonne del GdB il 4 maggio 1999, a 50 anni esatti dalla tragedia.

La notizia della sciagura di Superga (le cronache allora non viaggiavano con la velocità di oggi e non tutti avevano ancora la radio) piombò come un devastante macigno sugli alunni della media Romanino di corso Matteotti. Il grande Torino non solo per noi era più di un mito, stava sopra le rivalità dei giovani tifosi, era il "Toro" e basta, quello che aveva vinto tutto, che si era fatto amare, che lasciava la maglia granata in via Filadelfia per mettere quella azzurra della nazionale al Comunale. Il "Toro" era l'unico fenomeno sportivo che passava sopra le acerrime rivalità tra coppisti e bartaliani e che metteva d'accordo perfino i "nemici" della terza F e della terza G.

Il giorno della disgrazia la città respirava atmosfera di morbosa curiosità, era incominciato infatti il processo contro Alfredo Faotto, imputato di omicidio aggravato per aver ucciso il cognato conte Giovanni Pellegrini Malfatti e la vicenda aveva appassionato oltre ogni dire l'opinione pubblica. Ma quello che era successo a Torino aveva cancellato d'un colpo questo interesse di piccola provincia per lasciare posto allo sbalordimento. Tra i morti di Superga c'era anche un figlio della Brescianità, Mario Rigamonti, classe 1922, di famiglia ben nota e stimata. Votata allo sport, si direbbe, dal momento che un altro figlio, Luigi, (per molti anni stimatissimo e amatissimo medico dirigente del Pronto soccorso degli Spedali Civili, generoso e umile prestatore d'opera sulle frontiere delle missioni africane) era stato olimpionico di lotta greco-romana.

Mario era nato e cresciuto nelle file del Brescia; trasferito a Torino nella stagione '41-'42, era tornato con le Rondinelle nel '44 per passare poi al Lecco. Dal '45 in pianta stabile nel Torino, aggressivo ma di rara correttezza, venne chiamato in Nazionale (esordio l'11 giugno '47 a Torino contro l'Ungheria, vittoria azzurra per 3 a 1) dove registrò tre presenze dovendo subire la «concorrenza» di Parola nel ruolo di centromediano. A Superga morì anche Danilo Martelli, mantovano di Castellucchio, che aveva giocato qualche stagione nel Brescia. La città mise il lutto, uno dei più strazianti della sua storia. Dalla camera ardente allestita a Torino in Palazzo Madama, nella sala del Senato Subalpino, le salme partirono per le città d'Italia che aspettavano i feretri per l'ultimo saluto.

A Brescia il carro si fermò in contrada della Mansione, davanti alla casa paterna e alla ben nota e omonima locanda, uno dei punti di riferimento degli sportivi cittadini. I giocatori del Brescia vegliarono la salma durante la notte seguente. E l'indomani - era il 7 maggio - per i funerali annunciati per il tardo pomeriggio - la città si era fermata: si avvertiva un autentico dolore popolare, non un bresciano non era stato sfiorato e poi travolto dalla commozione e dal dolore per un evento così tragico. E questi sentimenti si addensarono con raro spessore nelle strade che videro il passaggio del corteo funebre di Mario Rigamonti. Il feretro - di rara semplicità e avvolto in una nube di fiori - portato a braccia dagli atleti di tutto lo sport bresciano, dalla casa paterna sostò in San Nazzaro e Celso per la funzione religiosa, poi si inabissò nel mare di folla che lo attendeva in corso Martiri della Libertà, in corso Palestro, fino a piazza Vittoria. Un corteo che procedeva con grande fatica, davanti e dietro le corone e i cuscini di fiori: quella del Coni provinciale era portata da Gabre Gabric e da Tonino Siddi, che solo pochi mesi prima aveva partecipato alle Olimpiadi di Londra.

La commozione fu enorme. E anche adesso che un testimone sbigottito e affranto come chi scrive, non riesce a trattenere le lacrime ricordando quel giorno e quel funerale che ci portava via uno dei nostri eroi. Da piazza Vittoria, sempre procedendo lentamente, calciatori, ciclisti, rugbisti, schermitori, ginnasti, atleti di piste e pedane, si alternavano portando i feretro. Nel piazzale del Vantiniano un carro lo aspettava. Bruno Boni sindaco pronunciò una delle sue più accorate orazioni funebri. Poi il feretro venne messo sul carro che partì alla volta di Capriolo per essere sepolta nella tomba di famiglia. A Mario Rigamonti venne subito intitolato lo stadio cittadino di viale Piave e dieci anni dopo quello nuovo di Mompiano, all'ingresso del quale venne collocata una lapide. Oggetto delle attenzioni degli eroi della bomboletta, come il coltello in una piaga del dolore per una morte che che il tempo non riesce a cancellare.

Ersilio Motta

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