Calcio

Il calcio di oggi, quello in cui anche il presidente diventa «ex»

Un ragionamento riportato alla mente dal ritorno di Massimo Cellino, con il Brescia, nella «sua» Cagliari, città in cui ha lasciato tanti ricordi
Massimo Cellino sabato sul terreno del Cagliari - Foto New Reporter Nicoli © www.giornaledibrescia.it
Massimo Cellino sabato sul terreno del Cagliari - Foto New Reporter Nicoli © www.giornaledibrescia.it
AA

Quando il 31 agosto 2008, alla prima giornata di campionato, il Palermo fu sconfitto per 3-1 a Udine, con perfetta scelta di tempo - in linea col personaggio -  il presidente Maurizio Zamparini subito esonerò Colantuono chiamando Ballardini. Nello stesso torneo, dopo cinque domeniche, dopo lo 0-2 a Lecce, col Cagliari a 0 punti, tutti si chiesero perché il presidente Massimo Cellino non avesse ancora fatto altrettanto con Allegri.

Giornali e tv, in quei giorni, furono impietosi col tecnico, tanto che tutti lo accolsero negli studi e fecero titoli sui quotidiani sempre con la stessa frase: «C’è poco da stare Allegri». Invece l’allenatore rimase, chiuse la stagione al nono posto, alle spalle dello stesso Palermo, partito con ben altre ambizioni. È anche per intuizioni come queste che in Sardegna conservano ancora un ottimo ricordo del presidente che ha condotto il club dal 1992 al 2014, quasi sempre in A e con picchi ragguardevoli come la partecipazione alle semifinali di coppa Uefa (1993-94) e a quelle di coppa Italia (1999-2000, 2004-05).

Lo stesso Allegri tuttora è riconoscente all’uomo che lo fece debuttare su una panchina di A, rinnovandogli la fiducia nel momento più difficile della sua gestione. Tanto che fu tra i primi a complimentarsi con lui dopo la promozione del Brescia nel 2019. «Io non so come abbia fatto - disse il tecnico - ma Cellino è arrivato e ha subito riportato la squadra in A. È più bravo degli altri, non c’è niente da fare».

Eppure il suo ritorno bis sull’isola da avversario sabato scorso non ha scatenato particolari reazioni rispetto alla prima volta quando lui stesso si commosse all’ingresso in campo e la gente lo riabbracciò con affetto, nonostante la sconfitta dei rossoblù (decise Donnarumma su rigore). A tutto ci si abitua, anche se resta sorprendente come, nel continuo capovolgimento di ruoli del calcio di oggi, nella trottola sia finita anche la figura del presidente.

Una volta il ruolo di ex era abbinato solo al calciatore o all’allenatore, era impensabile che un giorno avrebbe riguardato anche quello dei patron. Il legame uomo-club era imprescindibile, tanto che c’erano società che prendevano il nome di chi le guidava. L’editore Rizzoli a Milano aveva anche una squadra col suo nome, che militò in C dal 1962 al 1964. Senza arrivare agli eccessi di Mohamed Kallon (non molto rimpianto ex  dell’Inter) che in Sierra Leone (dove ora è ct) aveva dato nome a una squadra di cui era anche presidente e giocatore. Per non parlare delle grandi famiglie legate al calcio, dai Moratti nell’Inter ai Mantovani nella Sampdoria. Oggi resistono soltanto gli Agnelli nella Juventus.

La realtà è cambiata

I presidenti sono diventati come i calciatori e vanno dove trovano le migliori opportunità. Non sono più i «ricchi scemi» - come vennero  ingenerosamente definiti da qualcuno negli Sessanta - quando si svenavano per squadre di cui erano soprattutto tifosi, ma lucidi imprenditori che non vogliono rimetterci. Semmai, guadagnarci.

C’è chi ha anche più di una squadra, come Giampaolo Pozzo, patron dell’Udinese e anche del Watford, in Inghilterra, e sino a qualche tempo anche del Granada, in Spagna. Più delicata la cosa quando la cosa avviene nello stesso Paese. La Salernitana ha rischiato di essere esclusa dalla A perché Claudio Lotito pensava di poter continuare a guidarla pur essendo già presidente della Lazio: stesso problema, in caso di promozione dovrà risolvere il Bari - ora in B - e guidata da Aurelio de Laurentiis, presidente del Napoli.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato