Bisoli, un patto per il Brescia: «Ai miei compagni insegnerò a non avere paura»

Una grande e grossa delusione. Bruciante come poche altre. Ma il dolore acuto, anziché innescare la fatidica crisi del settimo anno, ha contribuito a far innalzare - se possibile - ulteriormente, l’attaccamento di pelle e cuore al Brescia. Il calcio, come la vita della quale è d’altronde una perfetta metafora, è il peggiore degli insegnanti: prima ti dà una lezione e poi, te la spiega. E sta a te capire cosa ricavarne: «Passato il momento e l’emotività, mi sono fatto un sacco di esami di coscienza. Ho rivissuto la stagione e tutti i suoi passaggi e posso dire che la stagione che ci siamo lasciati alle spalle, al di là della mancata promozione mi ha lasciato - e sono sicuro sia così anche per gli altri ragazzi che c’erano - un grande insegnamento: che non bisogna avere paura, mai. E questo è ciò che mi impegno a trasmettere quest’anno perché ho compreso il grosso errore che abbiamo fatto l’anno passato: pensare sempre troppo agli altri, molto poco a noi stessi. Ma quest’anno non sarà così».
È questo il «manifesto» di presentazione di Dimitri Bisoli che rinnova i suoi voti verso il Brescia col quale sta per iniziare «la settima stagione: eppure per me è come se fosse ogni volta un nuovo inizio, è come se questo fosse il mio primo ritiro con questa maglia. Sento sempre l’entusiasmo, le motivazioni, i sogni, le ambizioni e la carica del mio primo giorno qui: intendo ancora crescere come capitano, giocatore e persona».
Bisoli, asciugate le lacrime di Monza, che sapore le hanno lasciato? «Quello della voglia di ricominciare e anzi già pochi giorni dopo i play off sarei voluto ripartire». Ma a freddo è riuscito a fare un’analisi di ciò che non ha funzionato? «È stato proprio il campionato delle occasioni perse e in A è andato chi ha sbagliato meno. Ma non è stato tutto da buttare e anzi abbiamo imparato molto anche attraverso tutti gli esami di coscienza che ci siamo fatti».
Il suo autoesame a che conclusione l’ha portata? C’è qualcosa che rifarebbe in maniera diversa? E come spogliatoio siete mancati in qualcosa? «Ho sbagliato ad esempio a caricare troppo alcune partite e a non caricarne bene altre non riuscendo a tenere bene alta la concentrazione. Ma ci sono tante sfumature. Come gruppo è chiaro che se non abbiamo centrato un obiettivo qualcosa è mancato, ma nel complesso eravamo tutti bravi ragazzi. Ripeto: abbiamo fatto una esperienza importante che ci servirà e mi servirà per rivestire ancora meglio il mio ruolo: voglio trasmettere anche ai nuovi cosa significa il Brescia, una piazza importante e storica che va vissuta solo con orgoglio e non con timore o apprensione. Mi sento davvero un ragazzino e anche essere in un gruppo in cui ce n’è davvero uno del 2005 (Nuamah, ndr) al quale trasmettere qualcosa mi esalta...».
Ma insomma: quale è in definitiva l’errore da non ripetere più? Da fuori, anche quando eravate in alto, sembrava che non ve la godeste mai con serenità... «Perdere l’entusiasmo: è questo ciò che non va più fatto. L’anno scorso siamo venuti un po’ meno in questo perché ci siamo persi sempre a guardare gli altri pensando poco a noi. Finiva una partita e andavamo a controllare i risultati. Poi magari la partita successiva che avrebbe dovuto segnare un salto la sbagliavamo e allora ci preoccupavamo... Quest’anno quell’entusiasmo di provare a vincere in ogni circostanza dovremo averlo. Non dovremo avere paura di nessuno e pensare a essere felici per il fatto di andare a giocare in stadi bellissimi come ad esempio Marassi: a viso aperto e col coltello tra i denti ovunque, cercando di imporci perché magari poi è più bello un 4-4 di una vittoria 1-0 striminzita e sofferta. Spero anche torni gente allo stadio».
Era mancata anche la stabilità: non ha voglia di fare un «appello» a Cellino che tra l’altro l’ha elogiata nei giorni scorsi? «Non devo fare appelli a una persona che conosce il calcio come pochi. Posso solo dire una cosa: tutto quello che fa, lo fa comunque sempre a fin di bene e i suoi giocatori li porta nel cuore. Io poi a lui non posso che essere grato per tutto: mi ha fatto realizzare il sogno di giocare in A, mi ha dato la fascia. Nulla da dire».
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C’è Clotet, allenatore che ama far giocare le proprie squadre e predilige la qualità. Per un giocatore come lei che ha le sue armi migliori più nel dinamismo e nella forza è una sfida in più? «L’idea di dovermi migliorare ed alzare l’asticella è la cosa più bella. Con mister Pep già la prima volta sentii che mi ero migliorato: voglio farlo ancora di più. È bello lavorare con un tecnico che ha un’altra cultura calcistica. Lui a dire il vero è più inglese che spagnolo come approccio visto che l’intensità è il concetto sul quale più di tutti insiste».
Garofalo e Galazzi arrivano dalla serie C come accadde a lei a suo tempo: sono dei «bisolini»? «Sì. Arrivare dalla C significa avere fame e volontà e serve a capire che la gavetta serve, è un bagaglio importantissimo. Qui in generale sto vedendo tutta gente che ha voglia di fare e dare: sarà bello stupire».
Sette anni nella stessa squadra: è una mosca bianca in un calcio che brucia tutto in fretta. Le piace questo aspetto e rappresentare un’epoca quasi estinta? «Devo dire di sì e ciò è indipendente dall’essere il capitano: è bello perché sei consapevole sempre di più che i tuoi obiettivi passano per quelli della squadra. Si crea un legame speciale». Il peso della fascia non lo sente mai? «L’ho sentito soprattutto all’inizio perché non me l’aspettavo (tre anni fa, ndr): fu una cosa improvvisa e "rocambolesca". Capitano si impara. E io sto imparando anche grazie al contributo di tutti i rgazzi da Cistana a Moreo ma anche dei giovani e cercando di capire le esigenze delle nuove generazioni». In cosa si sente bresciano? «Nell’essere riconosciuto come un grande lavoratore. Inoltre mia figlia Vittoria è nata qui e pure la mia compagna Giada ormai si sente di casa: ormai Brescia per noi è pelle».
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