Calcio

Baggio, 20 anni dopo: «Ho dato tutto per il mio sogno e per far divertire»

Il 16 maggio 2004 Roby diceva basta: «Fu difficile ma ormai vivere la mia famiglia era il traguardo», racconta in questa intervista
Roberto Baggio si sfila la fascia da capitano e saluta il pubblico di San Siro il 16 maggio 2004 - Foto New Reporter Zanardelli © www.giornaledibrescia.it
Roberto Baggio si sfila la fascia da capitano e saluta il pubblico di San Siro il 16 maggio 2004 - Foto New Reporter Zanardelli © www.giornaledibrescia.it
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Da quando Baggio non gioca più? Il mondo non se la passa affatto bene e il calcio nemmeno. Ma Roby sì: «E le mie giornate, sinceramente, non sono mai abbastanza lunghe per fare tutto ciò che vorrei e che amo».

Venti anni oggi. Venti anni da quel 16 maggio 2004 così lontano nel tempo, così vicino nel cuore. Tutti sempre e comunque in piedi per Roberto Baggio, oggi come alle 16.45 di quel pomeriggio a San Siro. Si giocava un Milan-Brescia che da semplice festa quale sarebbe stata a prescindere per celebrare il tricolore dei rossoneri e la salvezza centrata due settimane prima dalle rondinelle, si trasformò in un momento storico. Alle 16.45, all’84’ non si fermò soltanto una partita (che, per la cronaca, sarebbe terminata 4-2). Idealmente si fermò il calcio. Tutti in piedi, lacrime agli occhi e brividi ovunque, per onorare Roberto Baggio, richiamato in panchina.

Quando la lavagnetta si accese illuminando per l’ultima volta quel magico 10 a sua volta per l’ultima volta di sempre impresso su una maglia del Brescia, Roby si sfilò la fascia da capitano, si mise la mano destra sul cuore e con l’altra salutò: «Ricordo ancora molto bene quella mia ultima domenica sul campo, davanti al meraviglioso pubblico di San Siro: 80.000 persone tutte in piedi per regalarmi un applauso che mai potrò dimenticare e che porto nel cuore come un prezioso ricordo pieno di gratitudine e di riconoscenza: in quel momento, compresi che qualcosa di buono avevo fatto anche io».

La semplicità

Da 20 anni a questa parte, l’«ex Codino» è diventato anche social. Ma è stato più per la necessità di neutralizzare chi si appropria indebitamente della sua immagine e del suo nome che per reale convinzione. Per il resto, Roby è sempre Roby e Baggio è sempre Baggio: la persona più semplice di questo mondo, l’uomo meno vanaglorioso di questa terra che però tutti i potenti cercano. Dategli la famiglia e la pampa argentina, dategli il trattore e la Panda con i quali scorrazza per il bosco circostante alla sua casa di Altavilla Vicentina, dategli dell’ottimo cibo, ottimo vino e soprattutto ottimi amici: così lo vedrete e saprete felice.

Roby è sempre al centro dei pensieri di chi nel calcio ricerca ancora la poesia, ma non ama stare al centro del mondo. Rifugge ancora se può – non per strategia, ma per attitudine dal giorno uno – la ribalta mediatica: ecco perché una pur rapida chiacchierata con lui a poche ore dalla partenza per un viaggio in Argentina a ridosso del ponte del Primo maggio, è merce tanto rara quanto preziosa. Per Roby, conta il «qui e ora». Conta il tempo che possiamo vivere e non quello che è trascorso. Per questo per lui, ripensare a 20 anni fa non è un esercizio troppo utile. Però di mezzo c’è la «password» che fa scattare quel qualcosa. Sette lettere: Brescia.

Cos’è stata Brescia per Baggio

«Brescia...Devo dire che ho costruito relazioni molto belle ovunque sono andato, ma effettivamente Brescia ha rappresentato qualcosa di diverso per me. E questo grazie a un grandissimo presidente come Gino Corioni che ha dato di tutto e anche di più. E poi grazie a un allenatore, Carlo Mazzone, che avrei voluto incontrare prima è che è stato inarrivabile per umanità e sincerità. E ora mi devo fermare perché quando parlo di loro mi commuovo...».

L’amarcord rispetto all’ultimo anno di carriera, a come e quando decise di smettere, è lucido e dolce. Ci racconta Roby: «Decidere di smettere non è mai semplice per nessuno e anche per me naturalmente fu così. Ci ho pensato tanto, ma tutto era diventato sempre più complicato e mai sarei potuto andare in campo senza riuscire poter offrire il massimo della passione, della testa e dell’entusiasmo: solo, sentivo che quella del 2003-2004 sarebbe stata mia ultima stagione».

Così: «A Natale iniziai a comunicarlo un po’ a tutti, trovando comprensione e accettazione perché chi mi stava accanto vedeva la mia sofferenza». Molti campioni quando sono al tramonto vedono l’horror vacui, il terrore del vuoto. Baggio no: «Ovviamente anche io, come è capitato a tutti, mi ero ritrovato a domandarmi se si potesse vivere senza calcio. Però allo stesso tempo vedevo ormai come un traguardo quello di potermi dedicare a famiglia, amici e passioni. Che sono tante e che cerco di assecondare».

La convivenza con il dolore

Resta un grande mistero: perché Baggio non gioca più da 20 anni eppure è ancora così tanto presente che pare giochi ancora? «Ho ricevuto e continuo a ricevere tantissimo affetto e la spiegazione che mi do è relativa al fatto che forse chi mi ha sempre sostenuto ha capito che il mio unico desiderio era quello di far divertire la gente. Ho sempre convissuto con il dolore, giocavo su una gamba sola… Le sofferenze fisiche possono apparire come una realtà crudele da accettare, ma grazie al Buddismo ho imparato a sopportare quel dolore affiancando a esso un traguardo anche apparentemente impossibile – come per me era continuare a giocare nonostante molti medici mi avessero detto dopo vari infortuni che non avrei più potuto farlo – piuttosto di privarmi del fatto dell’averci provato».

Dunque: «Io continuavo a coltivare il sogno di continuare a giocare e ogni volta in cui lo facevo davo tutto me stesso… Forse ho trasmesso il concetto del non accettare mai passivamente le difficoltà di fronte alle quali semmai bisogna sapersi sempre rialzare: bisogna affrontare le sfide e inseguire il proprio sogno che per me, finché ho potuto, è sempre stato quello di giocare a calcio che resta il gioco più bello del mondo».

Tutti in piedi per Roberto Baggio. 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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