Altobelli: «Andai in Spagna per lasciare il segno, l’ho fatto nella finale»

«Se giochi un Mondiale, se hai la possibilità più unica che rara di giocare la finale, devi lasciare il segno. E io ci sono riuscito». Alessandro «Spillo» Altobelli è uno degli «eroi» di Spagna ’82 e ancora oggi, ripercorrendo quel Mundial vinto contro tutto e contro tutti, compresa la sua rete del 3-0 contro la Germania, ha gli occhi lucidi.
Lui, orgogliosamente di Sonnino ma ormai bresciano a tutti gli effetti racconta le emozioni in questa intervista, visibile integralmente stasera su Teletutto alle 20.30.
Sandro Altobelli, sono passati 40 anni dalla vittoria del Mondiale 1982, che ricordo ha oggi?
«Quello di un’impresa, fatta dopo 44 anni dal successo del 1938 e arrivata al momento giusto anche dal punto di vista storico. C’era sofferenza nelle nostre città, abbiamo ridato credibilità al nostro Paese. Una vittoria di tutti perché tutti sono diventati campioni del mondo».
Dico un numero: 63. Tanti i giocatori nella storia del calcio che hanno segnato almeno un gol in una finale Mondiale. E in questo club esclusivo lei c’è.
«Ecco, a livello personale è questo il momento che non dimenticherò mai. Italia-Germania, 2-0 per noi, Bruno Conti che si invola sulla fascia destra e mette la palla in mezzo. Io sono attento e freddo, aspetto l’uscita di Schumacher, sposto la sfera e insacco. Io sono convinto che se arrivi a vivere un’occasione del genere, non puoi solo partecipare, ma devi lasciare il segno. E ci sono riuscito».
Anche perché il suo 3-0 chiuse la partita…
«Pensai "adesso abbiamo davvero vinto" e solo dopo rivedendo le immagini mi accorsi che il presidente Pertini con quel suo "Non ci prendono più" al mio gol era sulla stessa lunghezza d’onda. Quando segni in una finale del Mondiale e lo vinci, al calcio non puoi chiedere di più».
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Facciamo un viaggio, partiamo dall’inizio. Inter, stagione ’81-’82, la soddisfazione maggiore è la vittoria della Coppa Italia. Lei chiuse con 49 presenze tra campionato e coppe e 21 gol. Si aspettava la chiamata di Bearzot?
«Sinceramente sì. Sono arrivato all'Inter nel '77 e in tutti gli anni successivi sono andato in doppia cifra. Quindi da una parte dentro di me ero certo della convocazione, dall’altra però sapevo che il mister era attento a tutto e tutti. La Nazionale veniva da un ottimo Mondiale nel ’78 in Argentina, molti di quei protagonisti ci sarebbero stati anche in Spagna. Quando vidi il mio nome ero contentissimo».
Nell’elenco dei 22 mancava però Evaristo Beccalossi, la sua spalla in nerazzurro.
«Il Becca fece una grande stagione, molti pensavano che avrebbe fatto parte del gruppo. Non leggere il suo nome fu una sorpresa anche per me. E ricordo le polemiche, addirittura lo schiaffo di Bearzot a una tifosa che lo contestava a Roma per non aver convocato Evaristo. Giusto anche per far capire qual era il clima attorno a noi… Ma il Ct aveva Antognoni e sapeva benissimo che se Giancarlo avesse steccato nelle prime partite, la stampa avrebbe fatto pressione per far giocare Beccalossi. Diciamo che si tutelò e alla fine, mi dispiace per il mio amico fraterno, ha avuto ragione Bearzot».
Nell’elenco degli attaccanti c’era anche Paolo Rossi, appena rientrato dalla squalifica legata al calcioscommesse: la sorprese trovare il suo nome?
«No, perché Bearzot aveva fiducia immensa in Paolo nata nel Mondiale argentino. Sapeva ciò che poteva dare, lo difese sempre pure dopo il girone di qualificazione in cui lo si vedeva in difficoltà. E anche in questo caso il Ct ebbe ragione. Perché dal Brasile in poi Rossi ci ha portato fino alla vittoria con la Germania».
Torniamo al clima che circondava la Nazionale, non certo buono tra contestazioni e stampa molto critica.
«L’ultima amichevole la giocammo contro lo Sporting Braga in Portogallo, 1-0 striminzito, polemiche a non finire. E dopo il girone di qualificazione in cui passammo con tre pareggi per la differenza reti contro Polonia, Perù e Camerun gli attacchi furono feroci. È vero, stavamo giocando male, ma c’era un perché».
Ovvero?
«Bearzot fece una preparazione su sette partite, quindi per arrivare in finale. I nostri primi avversari, avevano invece lavorato per dare il massimo all’inizio, perché squadre come Perù e Camerun sapevano che non sarebbero arrivate in fondo. Quindi erano più fresche di noi, che invece sentivamo le gambe di legno e non avevamo la forza di ripartire. La stampa in quel caso ci criticò anche giustamente, prima di andare oltre…».
Il famoso silenzio stampa, il primo nella storia del calcio italiano.
«Un conto era attaccare la squadra per come giocava, un altro andare sul personale come si fece con Rossi e Cabrini. Decidemmo all’unanimità che il segno era stato passato e il "silenzioso" Dino Zoff divenne il nostro portavoce. Sapevamo bene che se fossimo usciti saremmo finiti nel tritacarne, ma quel silenzio stampa fu una scelta che ancora oggi ritengo sacrosanta».
Non accettata forse fino in fondo, nemmeno ai piani alti…
«Dopo la finale vinta, in spogliatoio entrò molta gente che voleva festeggiare con noi, ma Bearzot qualcuno lo cacciò via. Sì, anche alcuni dirigenti federali».
Torniamo al girone di qualificazione passato per il rotto della cuffia. Da una parte le critiche, dall'altra un gruppo unitissimo. Però Rossi non segnava mai. Ha mai pensato «ma perché non gioco io?».
«Stavo bene fisicamente e lo sapevo, ma ero sempre prontissimo a parlare con Paolo per dargli una mano. Io che avrei potuto prendere il suo posto ero davvero il primo a supportarlo. Così si fa in un gruppo che decide di prendere un’unica strada».

Arrivarono Argentina e Brasile.
«Bearzot ci disse: voi pensate a giocare e basta, per il resto ci sono io. Ma sapevamo che sarebbe stata durissima. Quasi per esorcizzare ricordo che chiamai a casa mia moglie, in vacanza ad Arma di Taggia, e le dissi: "Guarda che tra poco ti raggiungo al mare". Perché era così: dentro sapevamo di avere le qualità per fare qualcosa di grande, ma davanti c’erano i migliori».
E invece…
«E invece trovare Argentina e Brasile fu la nostra fortuna, perché giocavano a viso aperto e non chiuse come Polonia, Perù o Camerun. L’ideale per il nostro modo di fare calcio, ovvero di rimessa, sostenuto in quel momento anche da una condizione fisica che stava crescendo».
La sfida contro Zico e compagni è ormai nella storia del nostro calcio.
«Perché quando hai un solo risultato, lo ottieni e sei nel momento cruciale di un Mondiale poi nessuno più lo dimentica. Preparammo la sfida alla perfezione, ma il successo con l’Argentina ci diede una spinta incredibile. Dentro noi stessi sapevamo che avremmo vinto e infatti non ci fece male nemmeno essere ripresi due volte dai brasiliani. Ritrovammo poi Paolo Rossi con la sua tripletta. Lì ci sentimmo imbattibili. E forse lo eravamo davvero. Per superarci sarebbe servita la top 11 di Spagna ’82. Sapevamo che avremmo lasciato il segno».
Tanto è vero che divenne quasi una formalità la semifinale con la Polonia.
«Vero, ma Bearzot non mollava un colpo: entrava di sera nelle camere a dirci come avrebbero giocato gli avversari per farci stare sulla corda».

Lei con chi divideva la camera?
«Con Dossena. La sera prima delle partite, per scaramanzia, facevamo gli addominali. Portava bene. I cento colpi dell’atleta, così li chiamavamo».
Come avete vissuto i giorni prima della finale con la Germania?
«Giornate infinite, perché nessuno di noi aveva mai preparato una partita di quel livello. Sapevamo di essere fortunati, ma non dimenticherò mai la sensazione del tempo che si era fermato».
Domenica 11 luglio, stadio Bernabeu, si vedevano solo tricolori.
«La gente ci chiedeva di vincere e ne vedemmo tanta anche nelle strade verso lo stadio. Lì capimmo quanto sarebbe contato, per tutti, il nostro successo. Ci caricammo tantissimo entrando al Bernabeu: un teatro, un museo, tutto bianco, rosso e verde. Salì la voglia di giocare. E crebbe la convinzione di vincere».
Iniziò la partita, dopo sette minuti Graziani si toccò la spalla chiedendo il cambio. Il momento di Spillo Altobelli.
«Ciccio entra tanto in questo Mondiale: il suo gol al Camerun ci fece qualificare alla seconda fase, il suo infortunio mi ha permesso di fare gol in finale. Si era fatto male contro la Polonia, in semifinale, e infatti entrai io gli ultimi 20 minuti. Il massaggiatore dell’Italia era Della Casa, quello dell’Inter, con lui avevo quindi un rapporto particolare. Nei giorni prima della finale mi disse "Spillo, stai pronto perché Graziani non ce la fa". Quindi io mi allenai come se dovessi essere titolare. La domenica Bearzot chiese a Ciccio "come stai?", lui rispose "ce la faccio" e così partì lui, ma ero forte delle parole del massaggiatore. E infatti alla prima caduta Graziani restò a terra. Non aspettai nemmeno le parole del Ct: mi alzai, mi tolsi la felpa e iniziai il riscaldamento. Ero già preparato mentalmente. Baciai Ciccio, era un modo per ringraziarlo della possibilità che mi stava dando. Sapevo che era un'occasione unica. E volevo sfruttarla. E così è stato».
Si è parlato tanto delle esultanze dopo ogni gol.
«Vero: all’1-0 di Rossi mi si vede tornare a metà campo, dopo il 2-0 di Tardelli mi alzo il calzettone. Perché la mia testa era già al dopo, a cosa potevo fare io. E quando segnai il 3-0 la mia esultanza fu contenuta perché ci ero abituato. Ho sempre detto a Tardelli: "Marco tu quanti gol hai segnato? Venti? Ecco, io trecento. Avessi fatto ogni volta quella corsa folle come la tua la mia carriera sarebbe durata cinque anni di meno"».

In tribuna ad esultare anche più dei tifosi c’era il presidente Sandro Pertini.
«Ci caricò prima della partita in albergo e fu bello vederlo in tribuna, ci fece capire che tutto il Paese era con noi. E tornare in aereo con lui il giorno dopo fu emozionante, la partita a carte è entrata nelle immagini indimenticabili della storia d’Italia».
Come festeggiò la vittoria della Coppa del Mondo?
«Andando a cena con amici che erano arrivati a Madrid per la finale. Niente di che, perché il giorno dopo partimmo presto per Roma. Arrivammo a Ciampino, una folla immensa ci attendeva, e non so quanti tifosi sulla strada per il Quirinale. Lì capimmo veramente cosa avevamo fatto in Spagna».
Spillo, parliamo di Bearzot.
«Un genio del calcio, lui con tutto il suo staff. Se abbiamo vinto il Mondiale è stato solo merito suo. Aveva un grande rapporto con noi, non fece mai distinzioni, grazie a Enzo siamo entrati nella storia».
Già, perché l'impressione è questa: che senza nulla togliere agli altri che hanno alzato la coppa, voi siate davvero nella storia.
«E sapete perché? Perché in un torneo abbiamo battuto una dietro l'altra le squadre più forti al mondo: l’Argentina di Maradona, il Brasile di Zico, la Germania di Rummenigge. Ma noi eravamo 22 campioni».
Come è cambiata la sua vita dopo l’11 luglio 1982?
«Vinci un Mondiale, segni in finale, tutti ti guardano con un altro occhio. Diventai un giocatore conosciuto a livello mondiale, ma io sono rimasto sempre lo Spillo che partì da Sonnino per fare il calciatore».
Ultima domanda, salto di 40 anni. Undici luglio 2022, la Nazionale di Mancini è fuori dal Mondiale.
«Il fatto è che per la seconda volta di fila guardiamo gli altri dalla tv. Qualcosa è successo dopo l’Europeo e non so cosa. Siamo a casa da otto anni, è una delusione. Anzi, l’Italia che salta il Mondiale per due volte consecutive è una vergogna».
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