Non è mai solo sport: una staffetta che ci racconta chi siamo

Alice domandava: «Per quanto tempo è per sempre?». E il Bianconiglio rispondeva: «A volte, solo un secondo». E altre ancora solo un centesimo. Quello che ieri ha collocato Marcell, Lorenzo, Eseosa «Faustino» e Filippo nel «per sempre» dello sport. Che però - a certi livelli di imprese e di emozioni - non è mai solo sport.
Perché da lì si travalica e si entra a piedi uniti nell’immaginario collettivo. Marcell, Lorenzo, Eseosa «Faustino», Filippo e non Jacobs, Patta, Desalu e Tortu perché quei quattro capaci di imprese incredibili non sono come noi, ma sono tutti noi. Abbiamo visto cose che noi umani non avremmo mai immaginato di poter vedere. Ma soprattutto le abbiamo vissute, fin nel profondo dell’anima. La staffetta 4X100 d’oro azzurra ha rappresentato l’apoteosi: quello di ieri è stato uno dei giorni più belli dello sport italiano. Perché è stato il giorno in cui una disciplina indiscutibilmente individuale ha saputo diventare l’espressione di un movimento intero. E sarà anche colpa dell’estasi, ma viene voglia di spingersi oltre e di arrivare ad affermare che quella staffetta, ieri, ha saputo diventare l’espressione di un Paese intero.

Perché non è mai solo sport: il quale anzi è una straordinaria metafora di vita, uno specchio fedele della società. E allora quella staffetta, queste Olimpiadi in cui la spedizione azzurra ha collezionato flop di sistema inattesi e contemporaneamente realizzato exploit nemmeno lontanamente contemplabili, cosa ci dicono di noi? Che sappiamo scrivere e far vivere favole come nessuno, che siamo una fucina di eccellenze, che siamo pieni di talento (per tutto questo non a caso siamo invidiatissimi) e che quando decidiamo che non ce ne dev’essere per nessuno, davvero non ce n’è per nessuno. Solo che poi siamo anche quelli che vivono alla giornata, quelli che non investono abbastanza (o non investono proprio) nelle qualità di cui sopra.
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Ci pensate se nello sport non ci fosse la «dispersione» alla quale assistiamo per mancanza di strutture e disattenzione pressoché totale alle attività di base, lasciata ai sacrifici e alla passione dei privati? Se le ore di educazione fisica a scuola non fossero vissute come la ricreazione? Forse conteremmo «mazzi» di campioni e non singoli fiori cresciuti nel cemento, capaci di resistere a ogni avversità (Vanessa Ferrari nel 2006 divenne campionessa del mondo pur non potendo allenarsi in alcuni salti perché la sua palestra aveva il soffitto troppo basso, Giorgio Lamberti fece le imprese pur senza avere a disposizione nella quotidianità una piscina olimpionica) prima di finire sotto la bandiera dello Stato che ai migliori consente poi di poter vivere da professionisti ingaggiandoli nei gruppi sportivi militari.
Questo è il momento di godere e gioire, certo, ma anche di battere il ferro caldo: Marcell (a proposito, doppio oro: c’è ufficialmente un nuovo Dio nell’olimpo e parla bresciano) e gli altri - così come prima la Nazionale agli Europei - ci hanno dimostrato chi siamo e quello che potremmo essere sempre se solo riuscissimo a incanalare il nostro potenziale. Non è ancora tutto.
Perché i magnifici 4 di Tokyo hanno avuto la forza che nemmeno mille studi Istat tutti insieme avrebbero: ci hanno definitivamente offerto lo spaccato della nuova Italia. Niente è più inclusivo dello sport dove di multiculturalità non si parla: qui la multiculturalità si fa. E si consolida sopra le fondamenta di storie di vita così comuni - fatte di sofferenza (ieri l’emblema del riscatto è stato incarnato da Tortu) - eppure così straordinarie. In cui tutti ci possiamo identificare.
Ecco perché non è mai solo sport, ma siamo noi. Nel tempo presente. Un tempo che corre veloce più di ogni dibattito. Grazie, ragazzi.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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