Michele Dancelli: «In bicicletta ho imparato a vivere e soffrire»

Questa intervista è parte del progetto «Interviste allo specchio», condiviso con L’Eco di Bergamo e nato in occasione del 2023, l’anno che vede i due capoluoghi uniti come Capitale della Cultura 2023. Ogni domenica i due quotidiani propongono l’intervista a due personaggi autorevoli del mondo culturale (nell’accezione più ampia), uno bresciano e uno bergamasco, realizzate da giornalisti delle due testate. Di seguito trovate l’intervista al personaggio bresciano. Per scoprire il contenuto dell’intervista all’omologo bergamasco invece, vi rinviamo a L'Eco di Bergamo (in calce all’intervista trovate il link diretto alla pagina dedicata del quotidiano orobico).
Il ciclismo è uno sport popolare che ha solide radici fra Brescia e Bergamo, due delle province da sempre con maggiori tesserati e praticanti in Italia. Uno sport che sublima la fatica e la sofferenza, due caratteristiche nel dna di questi territori capaci di reagire alle difficoltà, testa bassa e pedalare verso il traguardo. Da generazioni le due province sfornano ciclisti che hanno portato lustro e gloria all’Italia e appassionato migliaia di tifosi con le loro imprese. Uno di questi è senza dubbio Michele Dancelli, dieci anni di carriera a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta.
Perché decise di fare il ciclista?
«Per aiutare mia madre vedova a comprarsi la casa. Ero povero, orfano di padre da quando ero in fasce, ultimo di sette fratelli, facevo il muratore, ma per poter permettermi una casa avrei dovuto lavorare dieci anni. Invece in bici andavo bene e decisi di scommettere con mia madre: se avessi sfondato facendo per un anno solo il ciclista, le avrei acquistato un appartamento».
Che cosa le ha insegnato il ciclismo?
«La fatica di vivere, le gioie per le vittorie e la notorietà conquistata con il sudore».
Brescia e Bergamo a livello sportivo sono sempre state fiere rivali, ma nel ciclismo non c’è mai stata quell’acredine che c’è ad esempio nel calcio.
«È vero, ai miei tempi c’era Gimondi ed eravamo certamente avversari, due corridori agli antipodi per mentalità e modo di interpretare la professione, ma ci si rispettava, mai odio. E poi sa che le dico? I miei primi fans club sono nati nella Bergamasca. Il primo faceva riferimento alla birreria di Seriate, locale molto in voga all’epoca, e poi il collegio vescovile Sant’Alessandro con gli studenti che mi scrivevano tante lettere e cartoline perché non potevano venire alle corse».
Quali sono le sue vittorie che porta nel cuore e ritiene più importanti?
«La Milano Sanremo nel 1970 mi consacrò finalmente campione agli occhi della stampa, perché giornali e tv vedevano solo Gimondi e Motta, ma ricordo con grande piacere la vittoria alla Freccia Vallone nel 1966 con traguardo a Marcinelle, teatro dieci anni prima della tragedia che colpì i minatori italiani, quasi tutti emigrati da Brescia e Bergamo. Da campione d’Italia fui portato in trionfo per le vie della cittadina belga, come si fa con una statua sacra. Quei minatori emigrati mi resero orgoglioso di essere italiano. Tuttavia una vittoria che porto nel cuore è uno dei Giri dell’Appennino vinti. Partì in fuga poco dopo il via e i miei colleghi mi videro solo dopo il traguardo complimentandosi per il gesto atletico e per la media record stabilita in quell’occasione».
Ha rimpianti?
«Due su tutti: non essere mai riuscito a vincere un Mondiale negli otto corsi con la maglia azzurra, un po’ per sfortuna un po’ perché i vari ct non mi diedero mai un gregario e la libertà di fare la mia corsa. Poi aver accelerato il rientro alle gare dopo la frattura al femore alla Tirreno Adriatico del 1971. Se mi fossi curato a dovere la mia carriera sarebbe durata di più».
La bici ai suoi tempi era un mezzo di trasporto per recarsi al lavoro, oggi è un soprattutto un mezzo per il tempo libero e il divertimento. Quale futuro vede per la bici e il ciclismo?
«Nello sport c’è un abuso di tecnologia che snatura il senso del ciclismo e gli atleti sono sempre più un complemento della bici. Per il tempo libero invece la diffusione delle e-bike sta riportando tanta gente a pedalare ed è un bene».
La ciclovia della cultura Bergamo Brescia o altre ciclabili simili pensa facciano bene al ciclismo?
«Ben vengano i percorsi protetti, ciclabili come quella citata fanno bene soprattutto al turismo e aiutano a scoprire in sicurezza un territorio meraviglioso».
A questo link l’intervista allo specchio curata da L’Eco di Bergamo >>
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