«Dalla depressione alla fede, la mia medaglia d’oro è l’equilibrio»

La donna, prima dell’atleta. Il benessere del corpo e della mente per se stessi, non per performare sul tatami. La fede scoperta, per trovare le risposte che non arrivavano. Il tutto per l’Alice bambina e poi per l’Alice donna, non per la Bellandi campionessa olimpica e mondiale di judo. «Fa tutto parte di un percorso», ha raccontato la stessa Alice Bellandi in un accorato dialogo durante un incontro del Panathlon club di Brescia focalizzandosi su un punto chiave: le sconfitte, le risalite, i trionfi come l’oro a cinque cerchi di Parigi 2024 e quello iridato più recente di Budapest – sempre nella categoria -78 chilogrammi del judo – ti regalano la gloria sportiva in quel momento, ma quando le luci si spengono l’unico «combattimento» – metaforicamente parlando – è con la propria anima.
Alice, come si sta dopo aver conquistato in meno di un anno oro olimpico e mondiale?
«Quando ottieni determinati risultati lì per lì non li realizzi neanche. Ci ho messo parecchi mesi per capire di aver vinto a Parigi e ancora sto metabolizzando il Mondiale di Budapest. Ma personalmente non credo si tratti di medaglie, bensì di percorsi di vita. Lo sport è pochi anni in cui dare tutto, ma ci si dimentica che prima che atleti siamo persone: per essere performanti sul tatami devi essere in equilibrio con te stesso. Le vittorie sono state un gran punto del percorso come persona. L’Olimpiade è stata la medaglia del riscatto, tutti se l’aspettavano ma non era scontata. A Budapest dovevo riconfermarmi con una maturità diversa. La cosa più importante resta sentirsi stabili e in equilibrio con se stessi. I risultati sono solo bandierine sul percorso».
Vero, lei è però l’unica nel 2025 ad aver vinto finora il Mondiale dopo i Giochi. Come ha trovato le motivazioni?
«La cosa fondamentale è la volontà, bisogna sempre fare un passo dopo l’altro. Ed è come ho vissuto il post Olimpiade. Inizialmente avevo un rifiuto totale per la mia disciplina, anche solo nel mettermi i vestiti d’allenamento. Era frustrante. Ho rispettato le mie emozioni, il non voler far judo per quasi 5 mesi e fare altro, mettersi in gioco in contesti in cui non sai fare nulla. Ho ritrovato l’Alice piccolina, che non sapeva fare judo. Ho chiesto alle persone attorno a me di non mettermi pressione, che avrei deciso io quando tornare sul tatami. Vedendo gli altri gareggiare mi è tornata la voglia, i Mondiali mi davano le giuste motivazioni: mi sono presa una grande responsabilità a tornare senza aver combattuto prima, ma è andata bene».
Ha chiesto di non avere pressione, è stato così anche in famiglia?
«Ho un attaccamento particolare ai miei genitori. Sono così per quello che mi hanno insegnato come bambina, ragazza e donna. I miei successi li sentono più loro, per me a Parigi è stato bellissimo vincere e vedere loro sugli spalti. Che io vinca o perda non mi giudicheranno mai. Più vai in alto, più trovi conforto nelle tue radici: a loro non importa che io sia campionessa olimpica o del mondo, importa che io stia bene».
Torniamo proprio a Parigi. In quel momento, il punto più alto di sempre, come mai ha ricordato proprio Tokyo, il punto più basso?
«Venivo da anni di insuccessi. Non li chiamo fallimenti perché si sono rivelati la mia benedizione. Non avrei dovuto essere a Tokyo, venivo da 21 combattimenti con solo sconfitte. Ma quello era un modo per vedere il mondo diverso. Ho cambiato categoria, ci sono state tante cose che fanno parte della vita e non posso nasconderle: senza quella sofferenza non sei nulla, sono una supporter della sconfitta perché è lì che trovi le risposte. Devi abbracciare la tua croce e portarla finché andrà meglio. Non si tratta di medaglie, ma di come ti senti. Non sono le medaglie a renderti felice, infatti per me dopo Parigi è stata tragica».
In che senso?
«Ero triste e non mi sentivo autorizzata ad esserlo solo perché ero campionessa olimpica. Fortunatamente avevo al mio fianco la mia mental coach (Laura Pasqua, del gruppo di Nicoletta Romanazzi, la stessa di Jacobs; ndr)».
Che ruolo ha avuto per lei?
«È stata fondamentale. Mi ha salvato, non solo come atleta, ma come persona. Mi ha fatto scoprire tanti lati di me. Il più grande errore che facciamo è pensare di conoscersi, quando in realtà abitiamo un corpo esteriore senza essere consci a fondo di quello interiore».
Il percorso con un mental coach non serve solo per essere uno sportivo migliore, giusto?
«No e sono felice che le nostre testimonianze possano essere d’aiuto a chi non ha la forza di fare questo passo. Ci vuole coraggio a toccare cose che non vuoi toccare, parlare di traumi e sofferenze. Non serve a performare, puoi farlo e poi sentirti comunque vuoto. E nessuna medaglia, i soldi e le belle auto lo colmeranno mai quel vuoto».
Per questo non si è mai vergognata ad usare la parola «depressione»?
«Non bisogna aver paura a dire le cose come stanno. Fa paura la gente che le nasconde queste cose. Sono arrivata a certi risultati passando da porte molte strette, nulla è facile. Quello è il bello, riuscire a stare nei momenti duri ed avere le persone giuste a fianco. Dopo Parigi, quando ho capito la distanza tra me e ciò che mi girava intorno, ho ripreso in mano la mia vita. Ci si aspetta che la felicità di quel giorno d’oro duri sempre, ma non è così. E sono contenta di poterlo dire a tutti».
Di recente ha parlato anche del suo rapporto con la fede, come è nato?
«È una domanda molto personale, l’ho riscoperta da poco più di un anno. Il mio allenatore Antonio Ciano è estremamente credente, nei momenti tristi cercava sempre di farmi ragionare su come Dio avrebbe voluto. Non è stata una forzata, è cresciuta dentro di me: un giorno a Brescia cercavo una catenina per la fede di mia nonna, quando l’ho trovata c’era un ciondolo con il volto di Gesù Cristo. Per me è stata come una vocazione. Non vado in Chiesa, frequento dei pastori, nessuno ti insegna come pregare, ma c’è un libro di cui tutti parlano e che pochi leggono in cui ci sono tutte le risposte».
E poi come ha iniziato a pregare?
«L’ho chiesto alla mia compagna di nazionale Odette Giuffrida mi ha detto semplicemente di parlare. Ho iniziato a scoprire, ascoltare i culti, leggere la Bibbia. Ora per me è importante ringraziare Dio, anche nei giorni peggiori. Dobbiamo accettare le tribolazioni per avere la gloria eterna, credo che il Signore voglia questo da me».
Le hanno dato forza anche i tanti incontri con i bambini?
«Sì, perché prima pensavo solo all’Alice matura, donna. Dimenticandomi di come ero, ora mi porto sul tatami l’Alice bambina. Finché terrò viva questa bambina e il suo amore per lo sport, potrò andare avanti».
Fino a Los Angeles 2028?
«Non ne ho la più pallida idea, non si può arrivare ad un punto volandoci. Sono altri tre anni, è un tempo lunghissimo. Voglio solo godermi questo nuovo viaggio e continuare a divertirmi».
Lo ha fatto anche a Parigi, nonostante le pressioni?
«Beh, si diceva che arrivavo seconda o terza ma non vincevo mai. Però sono stata tanto umile quanto presuntuosa di ridicolizzare tutta quell’attesa, ero anche un po’ arrabbiata. C’era aria tesa, ho avuto paura, ma ho pensato che nessuno poteva trasformare quei Giochi in un incubo. Fa parte della mia nuova consapevolezza».
E ora quale è il sogno?
«Ormai non si parla più di sogni, ma di obiettivi. Vorrei dire Los Angeles, ma è lontano. Dico solo che voglio godermi il tutto con serenità rendendo onore a questa nuova Alice».
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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