La storia di Anna, da Brescia al Camerun per far nascere bambini

Da nove mesi Anna Zon, originaria della sponda bergamasca del Sebino ma bresciana d'adozione, sta svolgendo il servizio civile in Africa
AA

«Qui impari a lavorare, ma anche a vivere, nell'essenzialità totale. Riesci a fare cose eccellenti anche con risorse limitate, sia nella vita che nel lavoro».
Anna Zon ha 27 anni e da dieci mesi vive a Yaounde, capitale dal Camerun. Originaria di Pianico, nella Bergamasca, è bresciana d'azione: nella nostra città si è laureata in Ostetricia e ha iniziato a lavorare.

Trovare un'occupazione stabile, in ospedale ma anche in altre strutture sanitarie della provincia, era ormai un miraggio. La svolta è arrivata via mail, con la proposta di partire per un anno di servizio civile internazione in Camerun con l’ong Centro orientamento educativo di Barzio. Mezza giornata a rimuginare su quelle poche righe, poi la decisione di partire, «in quel bando ci ho letto il mio nome».

 


«Non ci sono tanti bianchi qui - racconta -. Di solito sono associati ai soldi e a una migliore economia. In realtà è solo questione di melanina» (ride).
Qualche differenza, comunque, c’è. A cominciare dal lavoro. «Essere ostetrica qui significa seguire la futura mamma lungo tutto il suo percorso, le viene garantita continuità assistenziale prima e dopo il parto. Per le gestanti, in particolare, è attivo un progetto sulla trasmissione materno-fetale dell'Hiv che ha raggiunto risultati pazzeschi: abbiamo quasi raggiunto lo zero».

Yaounde è la capitale, e la vita lì non è di certo paragonabile a quella dei villaggi. Ma nell'ospedale in cui lavora Anna tante mamme arrivano anche dalle periferie. «Abbiamo una cinquantina di posti letto - dice ancora -, nel 2016 siamo arrivati 4.500 parti. Ogni figlio è un dono».

 


Dice Anna che se per una mamma europea un figlio è un investimento economico, per una mamma africana è un investimento per il futuro, «qui la vera ricchezza sono i figli». Fare un paragone, però, non funziona ed è sbagliato. «In dieci mesi - racconta Anna - il mio punto di vista è cambiato tantissimo, ho imparato che non si può osservare nessuna situazione al di fuori del suo contesto. La fede, per esempio, è un formidabile punto di forza per queste mamme. È qualcosa che all'inizio non capivo, adesso ho imparato a guardare le cose da un'altra prospettiva e mi ha aiutato a capire come elaborano il lutto».
La morte laggiù è una relatà con cui si è chiamati a confrontarsi quotidianamente, «si può evitare in mille modi, ma ho imparato ad accettarla».

 

 


Prevenire si può, e su questo fronte l'impegno è massimo, «soprattutto per quel che riguarda l'educazione alla sessualità, alle malattie sessualmente trasmissibili e all'affettività». Su questo ultimo aspetto in particolare si misurano le differenze tra culture: «Costruire rapporti di amicizia all'inzio non è stato facile - ammette Anna -, prima ho dovuto capire come vanno le cose tra di loro. Io sono sempre bianca e i ragazzi mettono in atto una forma di protezione per non farmi sentire a disagio che non sempre è necessaria. Mi pesa non poter uscire da sola la sera, in alcuni quartieri il tasso di criminalità è elevato. Ma non è un problema solo mio: vale anche per le altre ragazze camerunensi».

L'anno di servizio a civile è ormai agli sgoccioli, tra qualche settimana Anna tornerà in Italia. Arriverà il momento della separazione, del parto, perché quest'esperienza è stata un po' come la maternità. «I primi tre mesi sei agitata, non sai se hai fatto la scelta giusta, magari ti viene pure la nausea. Poi arriva il secondo trimestre, va tutto a gonfie vele e ti godi la tua nuova condizione. Nelle ultime settimane monta l'ansia da separazione, la paura del distacco. Alla fine piangerò».

Non sarà comunque un addio, ma la tappa di un percorso. «L'elenco dei motivi per cui sono partita è lungo - ammette -, sentivo che mi mancava qualcosa. Poi è arrivata quella mail, il richiamo di Mama Africa che avevo già conosciuto nel 2014 in Madagascar, e tutto è stato chiaro. Forse il mio futuro sarà qui, magari in un altro ospedale, con un altro "tucumtucumtucum"». Ride. «Qui non si usano termini tecnici, si parla per onomatopee. E ci si capisce anche meglio».

 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia