Dopo 12 anni la verità sullo schianto mortale

La verità arriva dodici anni dopo lo schianto mortale in auto. Con la Cassazione che negli ultimi 24 mesi ha prima disposto un nuovo processo in Corte d'appello, annullando la sentenza precedente, e ora ha messo la parola fine sul caso dell'incidente avvenuto nel 2009 lungo la strada che da Palazzolo porta a Cologne.
È l'alba del 14 aprile quando Domenico Maiorano, 45 anni, muore sul sedile posteriore di un'auto, di sua proprietà, che si schianta contro un palo della luce dopo essere uscita da una rotonda. Le Forze dell'ordine quando arrivano trovano solo il morto a bordo della vettura che risulterà tra l'altro rubata. Alcuni testimoni racconteranno che al volante c'era Andrea Pedersoli, oggi 38 anni, di Lovere, scappato dopo lo schianto così come un altro passeggero. Sul volante non ci sono le sue impronte digitali e nemmeno quelle dell’altro superstite che abitava in un campo nomadi dove vennero trovati il telefono cellulare e l’orologio della vittima. I due si rimpallano la responsabilità su chi fosse alla guida dell’auto al momento dell’incidente, ma alla fine Pedersoli, all’epoca sottoposto alla misura di sorveglianza speciale, viene condannato in primo e secondo grado.
Nuovi processi. Nel 2019 la Cassazione annulla però l'ultimo verdetto. «Mancano gli elementi a sostegno della responsabilità dell'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio» scrivono i giudici romani. Le carte tornano sul tavolo della Corte d'appello di Brescia che, dopo un nuovo processo, condanna l'uomo a due anni per omicidio stradale. E ora la Suprema Corte conferma la pena e chiude il caso.
Caso chiuso. «La sentenza poggia su una ratio decidendi adeguatamente motivata e corretta in diritto» si legge nella sentenza depositata nei giorni scorsi. Determinante è stata la nuova valutazione delle dichiarazioni rese, già all'epoca, da un testimone e dal passeggero sopravvissuto. Sul teste si legge: «È credibile per una serie di elementi: la circostanza che i due si fossero conosciuti la sera stessa presso il bar Stadio, che l'identificazione di Pedersoli era avvenuta tramite identificazione fotografica e che non avevano ragioni per incolparlo stante l'assenza di conoscenza pregressa e che la sera del fatto era risultato dimostrato che per tutta la notte l'imputato si era accompagnato con la vittima viaggiando a bordo dell'autovettura di questi fungendo da autista stanti le precarie condizioni fisiche del secondo». Tesi confermata anche dal passeggero illeso e pure lui in fuga dopo lo schianto. «È un riscontro idoneo a collegare l'imputato al fatto di reato e cioè - scrive la Cassazione - che Pedersoli era alla guida dell'auto di Maiorano ancorché non fosse sua, al momento dell'incidente».
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