«Protagonista il malato, non la malattia»

«Capii immediatamente quanto fosse importante il contatto fisico con il malato, l'acquisizione di una sicurezza personale durante questo momento, indispensabile per instaurare con il paziente quel rapporto di fiducia reciproca che è alla base di tutta la terapia». È ampiamente trascorso più di mezzo secolo da quando Franco Mandelli si trovava a fare i conti con l'asettica teoria e la ben più complessa pratica. Da allora, non ha risparmiato energie per perseguire l'obiettivo di trasformare leucemie e linfomi in malattie come le altre. E lo ha fatto seguendo un filo conduttore dal quale non si è mai discostato: mettere sempre il malato al centro, non la malattia.
L'ematologo Franco Mandelli ha raccontato la storia di una vita nel libro «Ho sognato un mondo senza cancro» (Sperling & Kupfer, proventi a favore dell'Ail), presentato a Brescia su invito della sezione locale dell'Ail, l'Associazione italiana contro le leucemie, linfomi e mieloma di cui è presidente nazionale.
Mandelli ha lottato, ancor prima di diventare medico, quando decise di opporsi al destino di ingegnere per lui sperato dalla famiglia, per ribaltare la sentenza di morte alla quale erano condannate le persone che si ammalavano di leucemie qualche decennio fa. Un cammino difficile, ma che è valso la pena percorrere: oggi, per molte forme di leucemia, la guarigione si ha nell'80% dei casi. «In questo risultato, il merito dei ricercatori e dell'ematologia italiana sono notevoli» sottolinea Mandelli. Ma non bisogna perdere tempo, perché il dramma vero è guardare negli occhi la madre di un bambino che rischia, perché il suo caso si inserisce in quel 20% della statistica. «In quei casi, mi veniva voglia di cambiare lavoro».
Il racconto, a Brescia, è stato ascoltato da un pubblico numerosissimo che, a tratti, non ha saputo nascondere l'emozione degli occhi e del cuore.
Quattro i temi affrontati: l'assistenza domiciliare, la terapia del dolore, le terapie «altre» quali la cura Di Bella e il ruolo del volontariato.
La battaglia per far sì che i malati vengano curati il più possibile al loro domicilio è ancora in corso. Certo, passi in avanti sono stati compiuti, tuttavia... «Mi ero illuso che, dimostrando ai politici che le cure a domicilio costano meno di quanto si spenda con la degenza in ospedale, la situazione sarebbe migliorata. Invece...».
Burocrazia, mancanza di risorse, ottusità di alcuni medici e politici non riescono, tuttavia, ad offuscare i volti dei malati che si sono affidati a Mandelli. E che lui in qualche modo «porta allo scoperto», entrando nelle pieghe della sofferenza e della speranza.
«Non potete immaginare la gioia nel volto di un bambino, quando gli ho detto che poteva tornare a casa - spiega -. Certo, ci sono cure che si possono garantire solo in ospedale. Ma il futuro è l'assistenza domiciliare e, in essa, la famiglia e gli infermieri giocano un ruolo terapeutico di primissimo piano».
I passaggi della cura, tuttavia, sono strettamente concatenati. Per questo, il «professore» durante il suo intervento bresciano ha voluto soffermarsi anche sulla terapia del dolore, ricordando che, tra i mille problemi del nostro Paese, a volte emergono aspetti di cui andare fieri. Tra questi, la legge approvata esattamente due anni fa sulla terapia del dolore.
«Il dolore è prezioso, perché grazie a lui spesso si scopre la malattia. Poi, però, diventa una presenza insopportabile e disumana, dal momento che esistono strumenti per alleviarlo o, addirittura, per eliminarlo. Al proposito, vorrei essere chiaro: non è mai accaduto che un malato diventi tossicodipendente a causa della morfina utilizzata per sedare il dolore. E non è vero che con la morfina si accelera la fine della vita». Il professor Mandelli sgombra il campo da una serie di «leggende metropolitane» che ancora frenano sia i pazienti sia i medici dall'uso di farmaci per migliorare la qualità di vita del malato. «Io sono contrario all'eutanasia, ma capisco che molte persone, in preda a sofferenze atroci, preferiscano morire».
E, a proposito di «leggende», lo scienziato si è soffermato anche sulla «terapia» Di Bella, dal nome del medico modenese che l'aveva applicata per primo. «Giustifico i malati che si appigliano ad ogni cosa nella speranza di guarire, ma ci sono delinquenti che li illudono con gli intrugli più improbabili». Ed è anche qui, in queste pieghe di disperazione e di speranza, che un bravo medico deve saper essere presente, con determinata leggerezza. «Quando si deve comunicare la diagnosi di tumore ad un malato, non è mai facile. E non esiste un modulo che possa funzionare con chiunque, per questo ritengo che l'istituto del consenso informato sia una sostanziale truffa alla quale si dovrebbe porre rimedio - spiega Mandelli -. Nei molti anni della mia vita da medico, non ho mai incontrato nessuno che mi abbia chiesto "quando morirò". Mai. Per questo, ritengo che ai malati bisogna sempre lasciare aperta la porta della speranza, anche se si sa che è perduta».
Il paziente e il grande medico, entrambi accomunati da una caratteristica: non arrendersi mai. Con loro, le migliaia di volontari che cambiano il volto dell'assistenza. Che sanno declinare quel «prendersi cura» in modo disinteressato. E con amore.
Anna Della Moretta
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