Cultura

La bicicletta: anatemi, riscatto, declino e rinascita

Parla Stefano Pivato, che ha ricostruito la storia sociale di questo mezzo dai ciclofobi ai proseliti
Il film Ladri di biciclette - © www.giornaledibrescia.it
Il film Ladri di biciclette - © www.giornaledibrescia.it
AA

Il bisnonno bersagliere che pedala verso il Piave, la nonna che ha trovato il fidanzato al Giro d’Italia, i genitori che ci sostengono, incerti, nelle prime pedalate: nei ricordi di ognuno c’è sempre, almeno, una bicicletta... Il fedele velocipede è parte del nostro paesaggio, ma non solo: a ben vedere, è una macchina del tempo a pedali. Gianni Brera sosteneva che «traverso le viti di una bicicletta si può anche scrivere la storia d’Italia». A finalizzare l’assist di Brera ha pensato il prof. Stefano Pivato con il libro «Storia sociale della bicicletta», edito da Il Mulino (251 pagine, 22 euro).

Nel testo c’è, anche, un po’ di Brescia: il volume è dedicato, infatti, all’ingegner Luigi Moretti, industriale triumplino che ha sostenuto le ricerche. Pivato, che insegna Storia contemporanea ad Urbino, si conferma storico della quotidianità, andando ad indagare un secolo e mezzo di storia nazionale grazie alla bicicletta. Il biciclo e quindi la bicicletta vera e propria non hanno avuto all’inizio vita facile, perché - come ci ricorda l’autore, da noi intervistato - «questo libro mette in luce il difficile rapporto che il nostro Paese ha sempre avuto con la modernità. I ciclofobi sono, all’inizio, in molti: dalla Chiesa al partito socialista, dall’esercito ai sostenitori del comune senso del pudore».

I preti in bicicletta, da don Camillo di Guareschi al nostro don Antonio Fappani, furono il risultato di un paziente cammino. «All’inizio - continua Pivato - il futuro Pio X tuona contro la bicicletta, strumento del demonio che costringe i religiosi ad una postura innaturale».

Anatemi anche dai socialisti, «in quanto il velocipede era realizzato nelle fabbriche, un prodotto del capitalismo. Il Mussolini socialista rivoluzionario, si dice, andasse a buttare chiodi sulle strade del Giro d’Italia. Da duce del fascismo avrebbe, invece, esaltato "l’autarchico cavallo d’acciaio"». Ampio anche il fronte dei perbenisti che si scagliavano contro le donne in bicicletta «peccaminosa, dannosa come sostenuto da alcuni medici - ricorda Pivato - in un clima che ritroviamo in certi passaggi del film "La bicicletta verde"». Altro scandalo la tenuta delle cicliste: la jupe culotte, la gonna pantalone: «Le femministe inglesi avrebbero dichiarato che la bicicletta aveva fatto per l’emancipazione della donna forse più del loro stesso movimento». Anche nell’esercito la bicicletta si fece largo tra forti diffidenze, «per pregiudizi - sottolinea l’autore del saggio - legati alla formalità della divisa, ad esempio. Come l’aereo, sarebbe diventata icona di quella modernità cantata dai Futuristi, anche nella Grande guerra.

L’impiego di reparti ciclisti fu tuttavia limitato dalla guerra di trincea. Il simbolo per eccellenza rimane sicuramente Enrico Toti, bersagliere volontario nonostante la mutilazione alla gamba e, in precedenza, uno dei primi atleti paralimpici. Il riscatto della bicicletta in armi sarebbe avvenuto durante la Resistenza, con le squadre gappiste sempre pronte a colpire in sella ad una due ruote». Quando il calcio era d’élite. Fino al secondo Dopoguerra, «nel cuore degli italiani - aggiunge Pivato - c’era il ciclismo, uno sport che parlava dialetto, e non il calcio, considerato aristocratico e d’élite. "Bartali" di Paolo Conte o macchiette come Gregorio il Gregario riassumono molto bene quel clima».

Negli anni della Ricostruzione la bicicletta cominciò il suo declino perché, come ricorda Pivato «era arrivata la motorizzazione di massa. La Seicento che fila verso il mare con una graziella sul portapacchi è, per me, l’immagine di questo passaggio di consegne». La rinascita «cominciò con l’austerity, che portò a riscoprire i due pedali. E negli ultimi anni l’ennesima metamorfosi: da simbolo controverso della modernità a icona di un’antimodernità che si batte per un mondo diverso».

Il ricordo del nonno. Il saggio di Pivato è, dunque, un viaggio da chi siamo stati a come potremmo essere, «viaggio che ho iniziato stimolato da un ricordo ben preciso: mio nonno che da Viadana andava fino a Parma, per ascoltare l’opera lirica al Regio, in sella ad una bicicletta».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia