Cultura

Il settimo caso di Albertano, detective illuminato nel Medioevo

Enrico Giustacchini parla del suo «Il caso del suonatore nella notte» ambientato a Rodengo
Enrico Giustacchini - © www.giornaledibrescia.it
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Nel cuore della notte risuona un corno. Dalla strada giunge un figuro con una maschera di rame e una tunica ornata di stelle. Entra furtivo nella finestra della casa ai margini della palude e consuma il suo delitto sotto lo sguardo attonito d’un testimone che non può intervenire. Un assassinio nel più classico stile giallo è il fulcro del nuovo romanzo di Enrico Giustacchini, ma la traiettoria è assai più ricca: nella settima avventura del Giudice Albertano - «Il caso del suonatore nella notte» - si contempla un viaggio sorprendente nelle meraviglie del Medio evo.

«Come ogni notte il vecchio Giona interrogava il cielo. Dalla finestra della sua casa sepolta nella soave campagna di Rodengo...». Bastano poche righe alla felice penna di Giustacchini per riportarci nell’affascinante mondo del giureconsulto bresciano tornato alla ribalta come detective. Giona, l’impotente spettatore del delitto, è un vecchio colto e saggio. Studia l’astrologia che governa anatomia ed erbe medicinali, ma si inquieta per le novità: la lingua volgare che in poesia insidia il latino, il realismo che nell’arte scalza le rigidità bizantine, e Fibonacci che affida ai segni arabi il futuro dell’analisi matematica. «Con Giona - spiega Giustacchini - volevo rendere plasticamente la vitalità del Duecento italiano e l’inevitabile confronto fra conservatori e progressisti davanti ai grandi sommovimenti culturali che avrebbero segnato il futuro dell’Europa». Il prologo di Giona è un raffinato cammeo che dà il tono all’avvincente storia. A tenere unito il complesso narrativo è l’indagine attorno all’uccisione di un mercante di spezie, a Rodengo.

Albertano viene chiamato perché il delitto ha aspetti inquietanti, almeno nella meccanica dei fatti. Siamo nel 1248 e il borgo di Rodengo sta ancora subendo le conseguenze dell’essere stato coinvolto nelle violente lotte intestine bresciane, tra i Milites, la fazione che raccoglie le casate nobiliari, e i Popolari, sorti nel 1200 attorno alla Compagnia di San Faustino.

Rodengo. «Quando i nobili dovevano scappare, si rifugiavano sempre a Rodengo», spiega Giustacchini, che alle lotte bresciane già aveva dedicato un capitolo della prima storia di Albertano, ambientata durante l’assedio di Gavardo del 1238 e lo scontro con le truppe di Federico II. Rodengo è pure la sede di un monastero cluniacense, molto potente per proprietà e privilegi anche se abitato solo da due monaci e un converso. «La crisi era già latente e avrebbe portato poi papa Eugenio IV ad affidare il cenobio agli Olivetani», spiega l’autore, che coinvolge i monaci nell’inchiesta del suo Albertano avendo rintracciato «le prove di una storia di simonia, di un commercio delle cariche, in una lettera del priore di Pavia all’abate di Cluny». Contesto complesso, quello che vede impegnato il nostro Albertano, che tuttavia è uomo di grande esperienza.

Enrico Giustacchini coglie questa occasione per rivelarci altri aspetti della personalità complessa e limpida del giureconsulto. Lo mette in scena proprio mentre con l’amico Berengario discute di un sermone che sta preparando per l’annuale congregatio dei causidici, gli uomini di legge, in programma nel convento francescano di San Giorgio. Il tema è la povertà e la necessità che i poveri siano sottratti ai potenti e alle prepotenze. Argomento caro ad Albertano, che durante gli studi universitari di Bologna si era avvicinato agli ideali di san Francesco. Dalle pagine dei saggi albertaniani Giustacchini si diverte a trarre ispirazioni per l’attualità. Stavolta attinge al «Liber consolationis et consilii» che Albertano dedica al suo terzo figlio, così come già aveva fatto con gli altri due, Vincenzo e Stefano. A Giovanni, che ha intrapreso la carriera di medico, il giudice raccomanda di «non solo somministrare medicina ai corpi, ma di offrire altresì consiglio, consolazione e aiuto».

E l’inchiesta? Dovrà sciogliere un mistero legato ad un automata. Spiega l’autore: «Sapevo che in epoca medievale andava di moda costruire meccanismi per sorprendere e stupire le corti e rallegrare le feste. Sapevo anche che ingegneri e matematici arabi avevano competenze raffinatissime. Ma poi ho incontrato Al-Jazari... Matematico e ingegnere che viveva in Mesopotamia, aveva stilato alcuni codici in arabo, con tanto di tavole, su automi che avessero sembianze umane. I testi erano in arabo, ma una cinquantina di anni fa sono stati tradotti da un originale studioso inglese. Sono le testimonianze di un fluente scambio culturale tra Oriente e Occidente. Dalla metà del XII secolo cresce un incredibile scambio di merci, idee e progetti tra il mondo arabo e l’Europa. Opere arabe sono tradotte in latino e opere latine sono tradotte in arabo. Gran parte della cultura greca giunge a noi dalle versioni in latino dall’arabo».

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