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Lo sforzo più grande verso il 4.0 è cambiare mentalità

Gerhard Dambach guida la divisione Italia «Il vero problema è il salto culturale»
Gerhard Dambach: Bosch Italia ha 5.800 addetti, 4 centri di ricerca e fattura 2,4 miliardi di euro - © www.giornaledibrescia.it
Gerhard Dambach: Bosch Italia ha 5.800 addetti, 4 centri di ricerca e fattura 2,4 miliardi di euro - © www.giornaledibrescia.it
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Tutti parlano di Industria 4.0, tanti provano ad applicarla nelle aziende e non è detto sia sempre un successo. «L'affermarsi della digitalizzazione all'interno di processi produttivi ben consolidati non è di certo semplice e, prima ancora di tutte le difficoltà tecniche, lo scoglio principale è dettato da un deficit culturale».

L’analisi è di uno dei manager più addentro alla quarta rivoluzione industriale, Gerhard Dambach, amministratore delegato di Bosch Italia, gruppo tedesco che in Italia controlla 20 società, 4 centri di ricerca, 5800 dipendenti e un fatturato che nel 2016 ha toccato i 2,4 miliardi di euro.

Nel 2011 ad Hannover, Bosch è stata una delle aziende a lanciare il tema dell'Industria 4.0. A distanza di anni, come valuta l'impatto della digitalizzazione?
«Per spiegare a che punto siamo arrivati mi servo di un esempio. Durante una fiera internazionale che si è svolta quest’anno a Berlino, è stato chiesto ad alcuni manager e imprenditori tedeschi la loro opinione sul 4.0. Più della metà di loro ha risposto di aver tentato di inserire percorsi di digitalizzazione in azienda ma, soprattutto per la difficoltà di coinvolgere tutto il team nel cambiamento, non hanno riscosso il successo sperato. In Germania manca ancora una cultura condivisa che porti ad applicare i principi dell'Industria 4.0. Si è partiti ma il percorso è lungo.»

Il risultato è in qualche modo sorprendente. Tutti ci diciamo che la Germania è la patria del 4.0. Anzi: c’è chi dice che il 4.0 sia un prodotto tipicamente made in Germany, un modo per vendere soprattutto le vostre macchine. E in Italia come vede il quadro?
«Qui siamo ancora un passo indietro. C'è consapevolezza di cosa significhi digitalizzazione ma è evidente la carenza di voler intraprendere il percorso, vuoi per paura vuoi per consuetudine ad un certo modo di produrre. Bisogna però che tutti si rendano conto che è cambiato il contesto di mercato, una mutazione che richiede grandi sforzi per rimanere competitivi. Le aziende continuano però a sperare che non sia necessario un sacrificio».

Cambiare è sempre complicato. A maggior ragione quando il cambiamento è chiesto alle piccole imprese che per la gran parte hanno difficoltà a capire da dove partire.
«Questo è vero e non si creda che il problema non sia sentito anche da Bosch Italia. Sul territorio abbiamo stabilimenti mediamente da 120-150 dipendenti, non siti da migliaia di persone con decine e decine di ingegneri a disposizione come in Germania. Il consiglio che posso dare, però, è cercare di capire come e dove un'azienda può essere implementata. Prima ancora di poter parlare di big data e tecnologie abilitanti, bisogna cogliere i segnali dalla produzione e dal modo di lavorare. Solo partendo dal basso si può crescere e, per questo motivo, più sono alte le competenze più si può migliorare».

Qui s'innesta quindi tutto il discorso relativo alla formazione. Come sta affrontando questa tematica Bosch Italia?
«Sono stati avviati di recente percorsi universitari e di formazione specificatamente rivolti all'Industria 4.0. Dovrà quindi passare del tempo per avere professionisti formati in quest'ottica. Nel frattempo noi ci appoggiamo alle università, Politecnico di Torino, di Milano, di Bari, attraverso lo strumento delle collaborazioni e dello scambio di competenze. Stiamo però anche cercando di creare all'interno del gruppo figure altamente specializzate, come dimostra il Bosch Industry 4.0 Talent Program, progetto prettamente italiano partito ad aprile e che sta formando 17 neolaureati in ottica di digitalizzazione».

 

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