Dialèktika

Tra el bròc e la bròca la giusta scenografia

Domande sospese su cavolfiori, calzolai e antichi greci
Una brocca
Una brocca
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«Dàm ché ’na bròca...». A volte una scenografia di fondo può modificare il senso delle nostre parole. Se la nostra scenografia ci colloca sotto l’ombrosa pergola di un’osteria, allora la bròca di cui parliamo è un contenitore di liquidi. Lo chiamiamo «brocca» anche in italiano. Se invece siamo immersi nell’odore di cuoio e di colla di un laboratorio da scarpulì, allora la bròca è un chiodo, una bulletta da suola (il dizionario Treccani la definisce «chiodo corto con capocchia larga»).

Nel caso dell’osteria il termine trae origine addirittura dal greco antico, dove la parola «pròchos» indica un contenitore e deriva dal verbo «pro-chéin» (significa letteralmente «versare dentro»). Nel caso invece dei chiodi da calzolaio i collegamenti che si aprono sono - almeno secondo un «dialettomane» come me - ancora più intriganti. Con il termine «brocchus» gli antichi romani indicavano un dente aguzzo, o anche chi ha i denti sporgenti. È racchiusa qui l’idea dell’«esser puntuto», dello «spuntar fuori».

Proprio come i rami secondari di un albero, che non a caso il dialetto bresciano chiama bròc (e se ci pensate i bròcoi, i broccoli, che altro non sono se non uno spuntar di verdure). Mi si aprono però due interrogativi: 1) perché si dice pelabròc (cioè «pelarami») di una persona inetta, incapace? 2) perché si dice bròc (cioè «dai denti sporgenti») di un cavallo bolso? Sia quel che sia.

Intanto confesso che personalmente - con chèl càld ché - fra il laboratorio di un calzolaio e la pergola di un’osteria opterei per la seconda. E per una volta almeno sarei sicuro di aver... imbroccato la scenografia giusta.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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