Dai monti di Sulzano al centro della terra

SULZANO - Eccoci nel bosco, abbiamo lasciato l'auto un centinaio di metri più a valle, abbiamo salutato il lago d'Iseo, placido e maestoso visto da quassù, e ci siamo imbragati a dovere.
Ci siamo, è il momento di iniziare il nostro viaggio al centro della terra. Giorgio, Gianbattista, Elisa, Giovanni ed Andrea, i miei compagni (o accompagnatori) d'avventura dello Speleo Valtrompia sono abituati, io un po' meno, anzi per niente: sono al debutto e mi sento un po' come l'Axel di Jules Verne, protagonista di quel «Viaggio al centro della Terra», scritto con la maiuscola e letto negli anni dell'adolescenza. Ma qui non si tratta di letteratura, bensì di cronaca, giornalismo vero, quello che non si ferma alla superficie e che scava in profondità, senza paura di sporcarsi le mani...
E qui ti sporchi, eccome. Lo capisci subito, arrivando all'imbocco della grotta, che nello specifico è un tombino. «Ma si deve passare di lì?», chiedo riluttante. Mi rispondono gentilmente di sì, anche se la nuvoletta disegnata sopra la loro testa comunica un pensiero del tipo: «E che pensavi, che ci fosse l'ascensore?».
Avete ragione, cari speleo-amici, basta domande sciocche, bando alle ciance e via all'esplorazione dell'Uricìna de la pòfa del Giardì, altrimenti detta LO438. Ogni grotta è ufficialmente censita: LO sta per Lombardia Orientale, 438 per il numero progressivo.
Quanto all'Uricìna eccetera, è il nome in dialetto con cui è nota fra gli addetti ai lavori, sin da quando fu scoperta, negli anni '50.
Si scoperchia il tombino (salutati da un gran svolazzare di insetti) e si va. Giambi mi precede, Pochi metri strisciando, altrettanti semiseduti, sempre allongiandosi (termine tecnico subito imparato), cioè agganciandosi con i due cordini muniti di moschettone alla corda assicurata alla parete. Adesso arriva il bello, ci si cala nella caverna per una quindicina di metri: siamo io, la corda ed il discensore, il led sul caschetto illumina le pareti ed intravedo cavallette e concrezioni dalle forme diverse. Rimetto i piedi per terra, lì sotto terra.
Guardo in su, quel minimo spiraglio di luce indica le strette dimensioni del «buchino» dal quale siamo passati. Attorno, invece, ci si è aperto uno spazio ampio: non c'è proprio nulla di claustrofobico, si respira benissimo, si può anche giocare col fiato che, per via della forte umidità, si condensa in strane figure.
Andiamo avanti, percorriamo un traverso di pochi metri, attorniati da stalattiti, stalagmiti, rocce panciute, formazioni calcaree che sembrano tentacoli di una piovra o meduse. Scendiamo ancora, lungo un pozzo di 5 metri, ed eccoci nella seconda caverna. Ai lati ci sono altri «buchi» nei quali per questa volta non mi infilo. È il momento delle foto ricordo, da mostrare poi orgogliosamente a colleghi ed amici, per farmi bello dell'impresa.
Ma prima bisogna risalire. Pur con una tecnica approssimativa (e con qualche dolorosa ginocchiata sulle rocce della prima parete), piano piano, torno a rivedere la luce. Sudato, sporco e felice dopo il mio viaggio al centro (più o meno) della terra.
Alessandro Carini
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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