Un bresciano scalerà l’Everest in cerca di emozioni e di un nome per «stivali verdi»
In tibetano viene chiamato Chomolungma, «Dea madre del mondo», per noi occidentali è conosciuto semplicemente come «Tetto del mondo». Ma l’Everest, con i suoi 8.848 metri sopra il livello del mare, è per chi vive di montagna come il canto delle sirene: è impossibile resistere al suo richiamo e la sua voce prima o poi irretisce. Lo sa bene Matteo Bonalumi, alpinista bresciano di cinquantanove anni che il prossimo 6 aprile partirà alla volta del Tibet per provare a salire sulla vetta del colosso intitolato al geografo britannico George Everest.
Il progetto
«Avevo in progetto di affrontare l’ascesa già l’anno scorso, ma uno strappo muscolare a pochi mesi dall’inizio della spedizione mi ha bloccato» racconta Bonalumi, membro della sezione di Brescia del Club alpino italiano e con alle spalle svariate esperienze di alta montagna su, tra gli altri, Dhaulagiri, Broad Peak, Manaslu (tutti 8mila), Aconcagua e Peak Lenin.
Ma nel cuore e nella mente del cinquantanovenne, che nella vita è un professionista in ambito economico-finanziario, l’aria rarefatta e il gelo della montagna più alta del mondo sono rimasti come un chiodo fisso. E all’inizio di aprile finalmente potrà ammirare il volto della «Dea madre del mondo».
«La Cina ci ha concesso l’autorizzazione (il Tibet è infatti una provincia della Repubblica popolare ndr) e saliremo dalla parete nord - spiega Bonalumi, che è anche autore del libro «Lassù, fino alle stelle» (Marco Serra Tarantola editore) in cui racconta le sue spedizioni -. È dal 2019, cioè dalla chiusura dei confini a causa dell’emergenza causata dalla pandemia, che nessuno affronta questo versante».
L’impresa
Per gli esperti d’alta montagna l’ascesa è considerata più complicata rispetto alla tradizionale «via standard» da sud e quindi dal Nepal, «soprattutto nella parte alta, con tre step di roccia divenuti nel tempo molto famosi».
Complessivamente serviranno circa quaranta giorni per tentare l’attacco alla vetta che, tempo permettendo, «dovrebbe avvenire nella seconda decade del mese di maggio».
Con il bresciano saranno ovviamente presenti altri alpinisti da tutto il mondo, compreso lo sherpa Dawa, «mia guida e amico da diverso tempo - racconta Bonalumi -, una persona con la quale c’è un rapporto profondo, visto che a lui affido la mia vita e viceversa».
Il desiderio
Ma oltre all’indescrivibile emozione di poter vedere il cielo dal punto più alto della Terra, Matteo Bonalumi parte alla volta dell’Everest con un altro desiderio: riuscire a dare un nome a «Green boots» (Stivali verdi).
Con questa dicitura si fa riferimento al corpo senza vita di un alpinista, che per l’appunto indossa scarponi verdi, abbandonato in una piccola grotta sulla cresta nord-est della montagna a 8.500 metri. Oltre certe altezze infatti i cadaveri degli alpinisti non vengono riportati indietro dato che le operazioni di recupero con elicottero sono impossibili.
«Un giornalista francese mi ha contattato dopo aver saputo che avrei tentato l’ascesa proprio da questo versante - spiega ancora Bonalumi -. Da tempo sta cercando di dare un nome a questa persona, (verosimilmente lo scalatore indiano Tsewang Paljor morto nel 1996 ndr), ma dal 2019 nessuno è più salito. Col team valuteremo se sarà possibile raggiungere il corpo».
L’obiettivo è quindi cercare di carpire più informazioni possibili per dare un volto e un nome a quello che al momento è un simbolo della durezza dell’alta montagna, una spietatezza naturale che si accompagna al fascino e alla bellezza dell’assoluto, che nella cucitura tra cielo e terra e nel gelo degli 8mila si manifesta.
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