Il vero scontro si gioca oltre il caso Almasri

La liberazione del generale libico avvenuta lo scorso gennaio ha generato una vicenda politica e giudiziaria che fa ancora discutere
Il generale libico Njeem Osama Almasri - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Il generale libico Njeem Osama Almasri - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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C’è una cosa che tutti hanno capito, se non altro lo ha capito chi conosce un po’ la recente storia patria dei nostri rapporti più o meno segreti, mai veramente confessati, con certi loschi personaggi che spadroneggiano sull’altra sponda del Mediterraneo, proprio come quel tal Almasri libico

Se il governo italiano ha liberato quel capobanda, anche a costo di dover sgusciare via dalla richiesta imperiosa di trattenerlo in arresto che veniva dalla Corte penale internazionale, e se poi lo ha anche gentilmente accompagnato a casa sua nientemeno con un aereo dei servizi segreti, un motivo lo avrà avuto, no? Non sarà che tra Largo Arenula, Palazzo Chigi e Viminale, dove siedono persone di grande esperienza come Piantedosi, Nordio e Mantovano, i funzionari si sono incartati con le procedure e i cavilli.

Evidentemente c’era un interesse nazionale da tutelare per la ragione che gente come quel boss serve a «stabilizzare» il pericolosissimo guazzabuglio che sta a un tiro di schioppo dall’Italia e che si chiama Libia. Laggiù comandano le bande, e sono loro che amministrano il traffico dei clandestini e che controllano gli impianti europei di petrolio. Pensate voi che un governante possa mai dire in pubblico, francamente, una cosa del genere? No. Si chiama «realpolitik», e noi la seguivamo quando coccolavamo Gheddafi e quando il colonnello Giovannone del Sismi a Beirut ci proteggeva, e chissà come, dai terroristi palestinesi di Arafat.

Essendoci però di mezzo la Corte Penale dell’Aja, è scattata una inchiesta che ha portato ad accusare per favoreggiamento i succitati Nordio, Piantedosi e Mantovano. Ma non la premier che «forse non sapeva», annotazione del Tribunale dei Ministri che deve aver punto Giorgia Meloni più di una vespa. E infatti lei ha subito urlato: «Io c’ero, sapevo, ho condiviso e avallato l’azione dei miei ministri accanto ai quali mi schiero apertamente».

Da qui la nuova guerra tra governo e giudici (appoggiati dalle opposizioni), tra centrodestra e Anm, con velenose insinuazioni che già circolano chiamando in causa anche personaggi chiave del Ministero della Giustizia non coperti da immunità e forse non amati dal sindacato delle toghe. Spiegazione della nuova battaglia di questa guerra: come per i centri in Albania e la gestione dei migranti illegali; come per le inchieste che fioriscono negli enti locali alla vigilia delle elezioni amministrative, anche il caso Almasri fa parte della vera grande disfida che si combatte tra i due fronti, e che si chiama riforma della giustizia, ossia separazione delle carriere, sdoppiamento del Csm, annullamento delle potenti correnti dei magistrati.

Non bisogna essere dei fini analisti del Palazzo per capire che i fuochi scoppiano intorno a quella riforma che Meloni, con Mantovano, Nordio e anche Piantedosi vuole, fortissimamente vuole, portare a compimento. Finora i magistrati, soprattutto le Procure, sono riusciti a bloccare un progetto che Berlusconi accarezzava sin dall’inizio della Seconda Repubblica. Berlusconi però non ci riuscì, vedremo Meloni. La posta è altissima se consideriamo che di questi scontri tra pezzi dello Stato ormai l’Italia soffre da Tangentopoli in poi, ossia da più di trent’anni.

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