Il vero scontro si gioca oltre il caso Almasri

C’è una cosa che tutti hanno capito, se non altro lo ha capito chi conosce un po’ la recente storia patria dei nostri rapporti più o meno segreti, mai veramente confessati, con certi loschi personaggi che spadroneggiano sull’altra sponda del Mediterraneo, proprio come quel tal Almasri libico.
Se il governo italiano ha liberato quel capobanda, anche a costo di dover sgusciare via dalla richiesta imperiosa di trattenerlo in arresto che veniva dalla Corte penale internazionale, e se poi lo ha anche gentilmente accompagnato a casa sua nientemeno con un aereo dei servizi segreti, un motivo lo avrà avuto, no? Non sarà che tra Largo Arenula, Palazzo Chigi e Viminale, dove siedono persone di grande esperienza come Piantedosi, Nordio e Mantovano, i funzionari si sono incartati con le procedure e i cavilli.
Evidentemente c’era un interesse nazionale da tutelare per la ragione che gente come quel boss serve a «stabilizzare» il pericolosissimo guazzabuglio che sta a un tiro di schioppo dall’Italia e che si chiama Libia. Laggiù comandano le bande, e sono loro che amministrano il traffico dei clandestini e che controllano gli impianti europei di petrolio. Pensate voi che un governante possa mai dire in pubblico, francamente, una cosa del genere? No. Si chiama «realpolitik», e noi la seguivamo quando coccolavamo Gheddafi e quando il colonnello Giovannone del Sismi a Beirut ci proteggeva, e chissà come, dai terroristi palestinesi di Arafat.
Oggi mi è stato notificato il provvedimento dal Tribunale dei ministri per il caso Almasri: dopo oltre sei mesi dal suo avvio, rispetto ai tre mesi previsti dalla legge, e dopo ingiustificabili fughe di notizie.
— Giorgia Meloni (@GiorgiaMeloni) August 4, 2025
I giudici hanno archiviato la mia sola posizione, mentre dal… pic.twitter.com/g0cK6JjbxJ
Essendoci però di mezzo la Corte Penale dell’Aja, è scattata una inchiesta che ha portato ad accusare per favoreggiamento i succitati Nordio, Piantedosi e Mantovano. Ma non la premier che «forse non sapeva», annotazione del Tribunale dei Ministri che deve aver punto Giorgia Meloni più di una vespa. E infatti lei ha subito urlato: «Io c’ero, sapevo, ho condiviso e avallato l’azione dei miei ministri accanto ai quali mi schiero apertamente».
Da qui la nuova guerra tra governo e giudici (appoggiati dalle opposizioni), tra centrodestra e Anm, con velenose insinuazioni che già circolano chiamando in causa anche personaggi chiave del Ministero della Giustizia non coperti da immunità e forse non amati dal sindacato delle toghe. Spiegazione della nuova battaglia di questa guerra: come per i centri in Albania e la gestione dei migranti illegali; come per le inchieste che fioriscono negli enti locali alla vigilia delle elezioni amministrative, anche il caso Almasri fa parte della vera grande disfida che si combatte tra i due fronti, e che si chiama riforma della giustizia, ossia separazione delle carriere, sdoppiamento del Csm, annullamento delle potenti correnti dei magistrati.
Non bisogna essere dei fini analisti del Palazzo per capire che i fuochi scoppiano intorno a quella riforma che Meloni, con Mantovano, Nordio e anche Piantedosi vuole, fortissimamente vuole, portare a compimento. Finora i magistrati, soprattutto le Procure, sono riusciti a bloccare un progetto che Berlusconi accarezzava sin dall’inizio della Seconda Repubblica. Berlusconi però non ci riuscì, vedremo Meloni. La posta è altissima se consideriamo che di questi scontri tra pezzi dello Stato ormai l’Italia soffre da Tangentopoli in poi, ossia da più di trent’anni.
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