Narrazione di guerra: i rischi per Kiev e l’Occidente

La narrazione è forse il fattore che più danneggia Kiev e non aiuta quella coesione che l’Ue sbandiera da quando è iniziata la guerra in Ucraina. L’informazione occidentale ha sempre sposato cause dando risalto a quelle che si rivelano solo buone intenzioni o ha favoleggiato su aiuti e forniture in realtà quasi sempre tardivi e insufficienti.
L’Europa non è riuscita a rimettere in moto l’industria della difesa, smantellata in 40 anni di «dividendi di pace»: i rifornimenti restano molto inferiori alle necessità ucraine e non reggono il confronto col sostegno nord coreano alla Russia, che già conta su un’industria in regime di guerra.
Il terreno, poi, ha annichilito le speranze sui carri Leopard e Abrams (arrivati in numero ridottissimo) o sul salvifico ruolo degli F16 (annunciati due anni fa ma sinora consegnati in meno di 20 esemplari, con pochi piloti, usati per intercettare missili e droni e mai giunti a ingaggiare un jet russo). Adesso titoli come «Macron manda i Mirage» creano false aspettative: i velivoli dovrebbero essere infatti al massimo 15 (versione 2000-5F, che l’Armée de l’Air sta dismettendo) per usare i quali si addestrano da giugno 26 piloti in Francia; in Ucraina non giungeranno prima di sei mesi e aggraveranno l’incubo logistico (che peraltro gli ucraini, appoggiandosi in Polonia, affrontano con caparbietà).
Non meglio va nella narrazione delle operazioni: pochi giorni fa i titoli su una nuova «offensiva» ucraina nel Kursk, coi «russi colti di sorpresa». In realtà è stato un contrattacco, già fermatosi, condotto con tre sole brigate (ridotte) verso Soldatenskoe per alleggerire la pressione dei russi sui fianchi e tenere la scarsa metà dei territori occupati ad agosto: la «sorpresa» era tale che l’emittente russa Ria Novosti ha trasmesso in diretta i movimenti dei blindati ucraini, mentre un blogger spagnolo ne aveva segnalato da giorni l’ammassamento.
Anche Kiev s’è incartata nella narrazione: all’euforia iniziale in cui i russi venivano dipinti come sprovveduti non è seguita, nel momento patriottico più favorevole, la mobilitazione generale per creare i «numeri» necessari alla difesa del Paese nel caso in cui la controffensiva del 2023 fosse (com’è) fallita. Ancora oggi non è stato deciso l’arruolamento dei giovani sotto i 24 anni, a fronte di centinaia di migliaia già espatriati e di defezioni che si registrano nelle nuove unità: il caso più clamoroso è la Brigata «Anna di Kiev», 5.800 uomini equipaggiati e addestrati in Francia. Di questi 935 avrebbero disertato già in Francia e altri 1.700 si sarebbero dileguati quando l’unità è stata inviata sul fronte di Pokrovsk. Ma molto si deve imputare al capo di Stato maggiore ucraino Syrsky che ha destituito il comandante della Brigata e il suo staff prima che questa arrivasse al fronte e per di più, ne ha tratto 2.500 uomini a metà addestramento per mandarli a Pokrovsk, rimpiazzandoli con altre reclute con immaginabili problemi di amalgama. In più l’unità è arrivata in linea fatalmente priva di droni e dotazioni di guerra elettronica.
La narrazione ucraina e occidentale aveva definito Bakhmut, dove si combattè otto mesi, caposaldo fondamentale: in realtà da lì il fronte non s’è più spostato, perché il terreno non si presta ad offensive, mentre molto più gravi, quasi fatali, sono risultate la caduta di Avdiivka, considerata inespugnabile, costata ai russi gravi perdite, che ha aperto la strada per la conquista di Selydove e Kurakhove, e quella di Vuhledar, importante snodo logistico: alle spalle di queste località non c’erano linee di difesa e gli ucraini faticano a realizzarne di nuove e a presidiarle per mancanza di fanteria.
I russi hanno commesso molti errori, specie all’inizio, ma Putin, forte del controllo dell’informazione, ha reagito con mobilitazioni drastiche (adesso impiega in Ucraina 700mila uomini) e con spregiudicate alleanze. La Russia ha subìto gravi perdite umane e di mezzi e la sua economia ne risentirà, ma non con l’immediatezza e la forza che si immaginava a Ovest.
Kiev è costretta a combattere una guerra che non può vincere perché le condizioni di Mosca sono inaccettabili, anche da una popolazione che, pur stremata, non può rassegnarsi ad aver patito tanto per trovarsi in un Paese ridimensionato, debole e fuori da ogni alleanza. Ma dovrebbe anche mettere da parte la conduzione politico-mediatica della guerra, smettendola di creare nuove brigate per compiacere i troppi comandi e immettendo nuovi soldati solo in unità di veterani, formandoli così sul campo. Syrsky è stato addestrato in Russia e ne risente: gira infatti la battuta che in Ucraina «un piccolo esercito sovietico sta combattendo un grande esercito sovietico».
Purtroppo la soluzione non è dietro l’angolo e anche Trump non sarà taumaturgico perché Putin ora ha in mano tutti gli assi. Almeno noi, però, potremmo imparare a usare «le parole della guerra»: i proclami non servono a chi muore al fronte.
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