Tim cede la rete e finisce un’era

Una firma dal notaio e il trasloco, come nella più tradizionale delle forme. Ma la sostanza colloca il fatto sul fronte dell’innovazione tecnologica. Con la firma dal notaio Marchetti, ieri mattina, la Tim ha venduto la sua rete per le telecomunicazioni ad una cordata che fa capo ad una finanziaria Usa. La prima conseguenza è che si svuota la storica sede di Roma, in corso d’Italia, quartier generale di quella che fu l’azienda monopolista della telefonia nazionale. Cose del secolo scorso. Nel palazzo arriva l’Agenzia per la cybersicurezza.
Atti e fatti che dovrebbero aiutarci a comprendere il cambiamento in atto. La vendita della rete Tim NetCo a Optics Bidco, la società partecipata da Kkr, da Canada pension plan investiment board, da Abu Dhabi investiment autorithy, con il coinvolgimento del Mef e F2i segna la fine di un’epoca. Un’epoca nella quale la Tim aveva una rete ed era anche un operatore con un’integrazione verticale fra infrastruttura e servizi.
Svolta strategica. Ma per chi e perché? Certamente cambia tutto per Tim, che proprio a causa della rete finiva per essere «zavorrata» da 27 miliardi di debiti. Ora incassa 19 miliardi di euro, che dovrebbero salire a 22 con gli addentellati. Tolto il peso, si aprono altre due questioni, quella occupazionale e quella relativa agli equilibri di mercato e al risiko tra gli operatori. Ma sono problemi di Tim e avranno tempi relativamente lunghi per giungere a nuovi equilibri. Anche se la concorrenza fra operatori, alla fine, riguarda tutti noi per le ricadute sui servizi e le tariffe.

Di interesse più generale, invece, è quanto accadrà nelle infrastrutture delle telecomunicazioni, in particolare sulla diffusione della banda larga. Questo è il tema davvero strategico - quasi tutto ormai si regge sui dati che sopra di esse circolano incessantemente -, che si trascina da anni e che è la ragione dell’attenzione dedicata all’intera vicenda di Tim, anche da parte degli organismi di controllo dell’Unione europea.
Il dossier della Rete unica nazionale è al centro del dibattito da lungo tempo. Lo scorporo e la vendita di NetCo da Tim a Kkr e soci, Mef compreso, sono da tutti considerati preliminari alla creazione della rete unica. L’operazione dovrebbe avvenire tramite l’unione della rete che viene da Tim con quella di Open Fiber, la società che fa riferimento a Cassa depositi e prestiti e al gruppo Macquarie. La prima domina la banda larga nelle aree più densamente abitate e quindi di mercato, la seconda è sorta proprio per raggiungere le zone periferiche che il libero mercato trascurerebbe.
Il Governo Meloni fin dalle prime mosse ha dichiarato l’intenzione di sostenere la realizzazione di una rete di telecomunicazioni a copertura nazionale, ma senza posizioni eccessivamente rigide. Per intenderci: l’idea è che serva una rete a copertura nazionale e con controllo pubblico, ma non necessariamente «unica». Distinzione di non poco conto, perché mette in rilievo i due obiettivi principali.
Da una parte si vuole ridurre il gap digitale fra le diverse aree del Paese, anche recuperando alcuni ritardi patiti nella diffusione della banda larga, e non solo nelle zone periferiche. D’altra parte si fa strada l’idea che diversificare piuttosto che accentrare le infrastrutture sia un modo per aumentare la capacità di reggere in situazioni di crisi. Nel frattempo, la situazione si modifica a ritmi sostenuti. E quel che ieri sembrava marginale oggi diventa dominante. Si sta rafforzando, infatti, l’idea che la banda larga via cavo, per quanto strategica, venga superata dalla banda ultralarga via satellite.
L’attivismo di Elon Musk, in particolare nel conflitto in Ucraina, ha dimostrato quanto avanzato e nevralgico sia questo settore. Se un personaggio come Musk è in grado di scompigliare le carte sul tavolo internazionale, una nazione come l’Italia che ruolo può avere? Quesito interessante anche perché i costi di satelliti e connessioni ad essi legate stanno cominciando ad essere concorrenziali rispetto alla fibra.

L’orizzonte che si apre è largo e va dalle antenne sul terreno alle regolamentazioni globali. È il destino della rivoluzione tecnologica: i veri protagonisti non si fanno rinchiudere in confini nazionali. Intanto, basta quanto messo in campo dal Governo, con la partecipazione del Mef che rileverà il 20% della società e F2i, cioè Cassa depositi e prestiti, cui andrà il 10%, per assicurare garanzie su un asset strategico che racchiude e traffica tutti i dati di tutti noi?
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