Opinioni

Terzo mandato: il dibattito tra limiti di legge e consenso popolare

Il tema è complesso e va oltre le diatribe su Luca Zaia e Vincenzo De Luca, Veneto e Campania
Bruno Boni - © www.giornaledibrescia.it
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Terzo mandato, sì o no? La questione tornerà sul tavolo, appena calerà l’attenzione per i fuochi d’artificio trumpiani. Come per l’autonomia differenziata, il cerino acceso sarà lasciato nelle mani della Corte costituzionale, alla quale stavolta ha fatto ricorso il Governo, impugnando la legge della Campania che toglie il limite dei mandati per il presidente di Regione.

E come per l’autonomia, il dibattito resterà aperto, comunque vada, perché tocca un argomento sensibile e carsicamente emergente ad ogni elezione. Il tema è complesso e va oltre le diatribe su Luca Zaia e Vincenzo De Luca, Veneto e Campania. Vale per le Regioni come per i Comuni. Non ha neppure una connotazione di destra o di sinistra, visto che in entrambe le parti si trovano variegate posizioni. Ha radici più profonde e contraddizioni più recenti. Così teoria e pratica vanno in cortocircuito.

C’erano una volta i sindaci che duravano trent’anni ed erano figure tanto emblematiche da diventare l’immagine stessa del loro paese. Anche nel Bresciano: Bruno Boni, Maffeo Chiecca, Giuseppe Morandini, Gigliolo Badilini... e tanti altri magari meno noti perché reggevano Comuni minori. Sindaci che, per dirla come Boni, si guadagnavano un voto al giorno nel rapporto diretto con i cittadini. Era la loro forza e alla fine, anche il loro tallone d’Achille. Finiva che consideravano il municipio un po’ come casa loro, lo occupavano per usucapione. Allora, a fare da contrappeso c’era che erano eletti dal Consiglio comunale, con un incarico quindi mediato e contrattato. Da quella situazione derivarono crisi amministrative endemiche, che spinsero alla riforma con l’introduzione dell’elezione diretta del sindaco. Con l’elezione popolare si ritenne saggio introdurre anche il blocco dei due mandati. Nell’insieme ha funzionato ed stata una buona prevenzione contro le tentazioni autocratiche, garantendo ricambi ordinati in quasi tutti i municipi. All’inizio era per tutti, poi le difficoltà a trovare candidati, soprattutto per i Comuni minori, spinsero a mantenere il limite solo per i più grandi. Ai sindaci, in genere, quel blocco non è mai piaciuto. Così non desta sorpresa che il primo cittadino di Milano Beppe Sala si schieri per il terzo mandato, parlando di «battaglia sacrosanta contro una norma antistorica». Subito seguito dal sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, che è anche presidente dell’Anci. Facile per lui ricordare che l’Associazione nazionale dei Comuni è «storicamente contraria ai due mandati». La loro posizione è chiara: perché non dovrebbe continuare ad amministrare chi gode del consenso popolare? Questa tesi trova il sostegno, più o meno esplicito, anche dei presidenti di Regione. Per le Regioni, infatti, è avvenuto un processo simile a quello comunale, anche se più contorto e in tempi successivi.

Ed ecco che nella foga del dibattito emerge il nodo più sensibile della contesa. Da una parte stanno gli amministratori, quelli che il consenso se lo devono guadagnare attraverso le preferenze personali, con un voto che almeno in teoria racchiude una fiducia diretta fra elettore ed eletto. Dall’altra stanno i politici, gli esponenti di partito che svolgono il loro ruolo soprattutto fra direttivi e segreterie, nel rapporto privilegiato non con l’elettore ma con il leader di riferimento. Emblema delle due posizioni lo scambio rovente fra Zaia e il sen. Maurizio Gasparri. Zaia attacca: «Non accetto lezioni da bocche sfamate da trent’anni in Parlamento». Gasparri replica: «Troveremo il modo di sfamarlo». Più espliciti di così.

In linea teorica, ha buone ragioni chi sostiene che il concentrarsi, con l’elezione diretta, di un potere territoriale forte nelle mani di una sola persona, debba avere un limite temporale. Ancor di più in tempi di personalizzazione assoluta della politica. Emblematico che gli stessi vertici regionali amino definirsi «governatori», anche se il loro titolo sarebbe presidenti. Infatti governano e non presiedono, quindi... Per quel che si vede proprio con i due personaggi al centro dello scontro, parlare di Doge con Zaia e di Vicerè con De Luca, non appare né allegorico né eccessivo. La deriva porterebbe ad avere Regioni simili alle Signorie, con o senza autonomia differenziata.

Nella pratica, però, la questione diventa più intricata se si considera la crescente distanza tra i cittadini-elettori e i politici, in particolare i parlamentari. Qualcuno aveva pensato - era un cavallo di battaglia di Beppe Grillo e dei suoi seguaci della prima ora - che anche per questi il limite dei due mandati sarebbe stato salutare. Non sembra sia andata a finire bene. Sul tavolo restano gli argomenti concreti degli amministratori che manifestano insofferenza nel constatare come la politica-politicante li esalti giusto il giorno in cui vincono le elezioni, per poi continuare con i propri giochi. La pratica del consenso si contrappone alla teoria delle regole, al di là degli schieramenti.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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