Terrorismo islamico, l’Europa è disarmata

La Grande moschea selgiuchide di al-Nuri a Mosul, in Iraq, ha rappresentato il simbolo dell’ascesa e della caduta dello Stato Islamico. Fu qui che nel luglio del 2014 Abu Bakr al Baghdadi, nella tradizionale preghiera congregazione del venerdì si autoproclamò Califfo e Comandante dei Credenti, mettendosi alla guida di un territorio che geograficamente arrivò ad eguagliare la superficie della Gran Bretagna, ma che ideologicamente aveva ambizioni di carattere globale, ponendosi come punto di riferimento per l’intera comunità religiosa.
Poco meno di tre anni dopo, per evitare che venisse liberata dall’esercito regolare irakeno, i suoi stessi miliziani la fecero saltare, affinché il «simbolo» non cadesse in mani nemiche. È la capacità di mantenere costante nel tempo, inalterata ed applicabile in ogni dove, l’ideologia mortifera del messianismo religioso islamista, la vera forza del jihadismo contemporaneo che, nonostante la sconfitta militare dello Stato Islamico, continua a rappresentare una minaccia costante per la stabilità e per la sicurezza regionale. Innanzitutto per gli Stati.
We vehemently condemn today’s terrorist attack in Munich. Our thoughts and prayers are with the victims, their families, and the people of Germany. Afghanistan and Germany share a deep bond and a long history built on common interests and values.
— Ali Maisam Nazary (@alinazary) February 13, 2025
Unfortunately, many Taliban… pic.twitter.com/KNKd4bTo92
Basti pensare alla fascia del Sahel dove la destrutturazione istituzionale, causata anche dalla saldatura tra gruppi criminali e terroristici (Isis e al-Qaeda), nel tentativo di fornire una risposta securitaria ha spinto i militari a prendere il potere in Mali, Burkina e Niger, Paesi nei quali nel 2024 si è registrato il 43% di tutti i morti per terrorismo a livello mondiale.
Poi si conferma minaccia per la stessa società civile, come sta avvenendo in Europa, che purtroppo ha un approccio ormai sempre più distratto verso la radicalizzazione, percepita come un qualcosa di distante dalla realtà, cui si aggiunge una pericolosa normalizzazione dinanzi a determinati eventi, spesso derubricati come azioni portate avanti da squilibrati, più che casi di terrorismo come in realtà sono.
🔴 A 24-year-old Afghan asylum seeker has been arrested over a suspected terrorist attack after a car was driven into a crowd of people in Munich, leaving at least 28 injured pic.twitter.com/HD2KTq7lUG
— The Telegraph (@Telegraph) February 13, 2025
L’errore di base è andato perpetrandosi nel tempo ed è consistito nel non ritenere plausibile che all’interno della grande massa di immigrati potessero esservi individui che fossero capaci di radicalizzarsi (o autoradicalizzarsi) in Europa anche dopo la sconfitta dell’Isis e organizzare attacchi non più strutturati come in passato, portati a termine da piccole cellule, con una logistica e una pianificazione ben definite e con a disposizione finanziamenti provenienti dall’estero, ma da singole azioni violente, compiute da quelli che in gergo possono essere definiti «lupi solitari», probabilmente una delle forme di terrorismo più sconcertanti e imprevedibili per la comunità di intelligence e per le forze di polizia, perché estremamente difficili da individuare e da prevenire.
Soprattutto in assenza di politiche e norme sia nazionali che comunitarie in materia di prevenzione alla radicalizzazione e alla deradicalizzazione. A dimostrazione della trasversalità politico-ideologica del terrorismo, il termine «lupo solitario» fu reso popolare alla fine degli anni Novanta da due suprematisti bianchi, che incoraggiavano i compagni ad agire da soli per ragioni tattiche. Tuttavia negli ultimi anni la maggior parte di questo tipo di attentati sono stati portati a termine da estremisti islamici.
Ciò a causa della risorsa ideologica che ancora oggi il fondamentalismo di Isis e al-Qaeda dall’Africa, così come di altri gruppi a loro ancillari riescono a propagandare: ovvero l’idea che in virtù del loro «martirio» i combattenti del jihad vincono anche quando sono militarmente sconfitti. La situazione internazionale in Medio Oriente dopo l’attentato del 7 ottobre 2023 non ha fatto altro che estremizzare queste posizioni, ammaliando diversi individui che hanno iniziato a compiere attentati in chiave anti-sionista, come a Solingen in Germania o a Zurigo.
In quest’ultimo caso l’attentatore, un quindicenne svizzero di origini tunisine, in un video dichiarava di rispondere all’appello «dello Stato Islamico ai suoi soldati di prendere di mira gli ebrei e i cristiani e i loro alleati criminali». La facilità con la quale si possano reperire in rete materiali, opuscoli, riviste e indicazioni su come si organizzi un attentato, l’emulazione tratta dai video degli attacchi postati sui principali social media hanno purtroppo fatto aumentare le azioni violente.
Tre quelle in Germania negli ultimi due mesi, uno in Austria due giorni fa. Episodi senza una regia unitaria, ma legati da una sovrastruttura comune che demonizza le società nelle quali taluni individui vivono e sono stati accolti e che sono lo specchio di un aumento esponenziale della radicalizzazione comportamentale, la quale conduce ad atti di violenza di matrice religiosa, ma che può anche ingenerare pericolose spirali di estremismo cumulativo, alimentando e amplificando altre forme di radicalizzazione, quali quelle di estrema destra e, a loro volta, in una loro forma di reazione, di estrema sinistra.
A quasi sei anni dalla scomparsa di al-Baghdadi l’invito a perseguire nella strategia di «tenere testa ai nemici logorandoli nelle loro possibilità umane, militari, economiche e logistiche», sembra oggi drammaticamente tornato di estrema attualità, lasciando l’Europa, oltre che attonita, apparentemente disarmata.
Michele Brunelli - Docente di Storia ed istituzioni afroasiatiche,Università di Bergamo
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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