Opinioni

Spettatori dell’orrore e di quei video che mostrificano i mostri

Un delitto efferato e inspiegabile viene replicato, senza filtri e senza censure, milioni di volte su tutti i nostri device: ci trasformiamo allora inconsciamente in profiler, interpreti, criminologi e sociologi
Anche sui nostri smarthphone scorrono immagini di orrore e violenza - © www.giornaledibrescia.it
Anche sui nostri smarthphone scorrono immagini di orrore e violenza - © www.giornaledibrescia.it
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In questa realtà orwelliana, ipervigilata, con telecamere ovunque e video di ogni cosa si diventa, anche non volendo, spettatori dell’orrore. Un delitto efferato ed inspiegabile viene replicato, senza filtri e senza censure, milioni di volte su tutti i nostri device costringendoci a guardare il mostro mentre si mostrifica.

Ci trasformiamo, allora, inconsciamente, in profiler, interpreti, criminologi, sociologi. Scandagliamo lo sguardo della vittima, le mani dell’assassino, l’atteggiamento delle persone presenti, indifferente, congelati dalla paura (o dalla viltà). Siamo dentro la scena. Osserviamo i passi dell’assassino che abbandona il luogo del delitto, gli ultimi rantoli della vittima accasciata e sola, il sangue sacrificale che scorre lento, così lento che par finto. Inebetiti, gli occhi fissi dentro ad uno dei tanti schermi con i quali navighiamo per le strade del mondo fermi sul nostro piccolo, accidentato, sentiero di casa, ci siamo noi.

«Il medium è il messaggio», diceva il sociologo canadese Marshall McLuhan. In un mondo intriso di comunicazione, ogni mezzo (medium) plasma il pensiero, i comportamenti e le forme della nostra esperienza. Ma il mezzo non è mai neutro, crea un’esperienza collettiva indipendentemente dal contenuto. Parlo del delitto nella metropolitana di Charlotte che ha visto Iryna Zarutska, una giovane rifugiata ucraina, accoltellata a morte da Decarlos Brown Jr.

Cosa ci spaventa di quel video che, volutamente, non bloccano e non censurano? Ci spaventa l’imprevedibilità della follia umana o la pavidità degli astanti? La pazzia degli altri o la fragilità delle nostre piccole vite? La violenza che abita l’uomo? O il fatto che l’assassino potrebbe essere dietro ai nostri passi, nelle nostre vite, incappucciato come un personaggio dei fumetti? Guardiamo quei brevi attimi in cui le sue mani aprono il piccolo coltellino da tasca. Gesti lenti, partoriti da un clic in una mente malata, difficili da anticipare, che ci lasciano la sensazione di una minaccia diffusa. Come non domandarsi quali emozioni abitino la follia? E dove nasce l’indifferenza? La distanza dalle emozioni più comuni (empatia, compassione, pietà) delle persone intorno, che aggiunge orrore all’orrore.

Le neuroscienze tentano, da tempo, di capire se esiste un collegamento fra cervello e comportamento criminale. Ci provò nell’Ottocento il controverso Cesare Lombroso, ma le ricerche moderne ci offrono dati molto più precisi. Studi di neuroimaging (condotti per esempio anche su Stefania Albertani, l’Elisa del docufilm presentato a Venezia), attestano alterazioni nella connessione tra amigdala e corteccia prefrontale; varianti genetiche del MAO-A (il cosiddetto «gene guerriero») associate a maggiore impulsività e aggressività, che diventano rilevanti in combinazione con vissuti traumatici, abusanti o in conseguenza ad una esposizione continua a conflitti familiari. Le neuroscienze non ci possono dire chi diventerà un feroce assassino, ma ci aiutano a capire perché alcune persone appaiano più predisposte di altre.

Resta il fatto che l’incontro con il Caos, come ci ricordava Jacqueline Morineau, è sempre terrificante. Nell’antichità lo si esorcizzava con i sacrifici umani rituali. Guardando le immagini, ormai tristemente iconiche, di Iryna Zarutska, la posizione fetale, lo sguardo atterrito, le mani alla bocca gli occhi che chiedono «perché» e «pietà» al «boia» incappucciato non possiamo non chiederci con un brivido ancestrale se di questo si tratti ancor oggi.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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