Sacrifici ineludibili per aver perso tempo

La narrazione del Governo sulla legge di bilancio è cambiata repentinamente dall’anno scorso. Nel 2023, complice l’euforia della vittoria elettorale, si parlava di tagli al cuneo fiscale e aumentava il numero delle partite Iva assoggettate alla cosiddetta flat tax, un trattamento di favore garantito a professionisti e imprese con un reddito lordo inferiore a 85.000 euro. La flat tax garantisce la tassazione onnicomprensiva con un’aliquota pari solo al 15%. Ai lavoratori dipendenti, che lamentano questa discriminazione (visto che l’aliquota minima Irpef è pari al 23%), il Governo diceva che avrebbe «gradualmente» esteso anche a loro i benefici della flat tax. Inoltre, qualche esponente di maggioranza ricordava ancora che l’abolizione delle accise sui carburanti (promessa nel settembre 2022) sarebbe avvenuta «gradualmente».
Ora è tutto cambiato: il ministro dell’Economia e delle Finanze chiede sacrifici a tutti ed è assai probabile l’innalzamento dell’accisa sul diesel.
In sé, questo aumento ha senso, visto che la benzina è, per motivi inspiegabili, tassata con un’accisa più elevata. L’idea del Governo è dunque quella di uniformare le accise su benzina e diesel (scommettiamo che gli introiti aumenteranno?). Ma l’avverbio di modo «gradualmente» è scomparso dalla narrazione dell’Esecutivo. E del taglio delle accise nessun componente del Governo parla più, confidando nella scarsa memoria degli elettori.
Perché questo cambio di rotta? Il motivo è semplice: come ricorda l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), il «30 aprile 2024 è entrato in vigore il nuovo Patto di Stabilità e Crescita (Psc) della Ue che segue un approccio basato su aggiustamenti di bilancio specifici per Paese». Questo strumento comporta, a decorrere dal 1° gennaio 2025, una riduzione del rapporto debito pubblico/Pil (prodotto interno lordo) nel corso di un periodo che oscilla tra i 4 e i 7 anni. Stando alle stime dell’Upb, se l’aggiustamento del rapporto debito/Pil avvenisse in 4 anni, il Governo dovrebbe procurarsi una cifra ingente del Pil (l’1%, cioè circa 21 miliardi). Se, invece, il Governo convincesse la Commissione europea ad allungare il piano di rientro a 7 anni, le risorse oscillerebbero tra lo 0,5 e lo 0,6% del Pil.
Perché questi toni allarmistici? In fondo si tratta di 21 miliardi al massimo, a fronte di entrate fiscali che sfiorano i 1.000 miliardi di euro. Il motivo è semplice: sul Governo pesano le promesse già fatte e l’innalzamento delle spese sul debito. A titolo d’esempio, l’Esecutivo ha più volte ripetuto che il taglio del cuneo fiscale (10 miliardi) sul costo del lavoro sarà garantito in modo permanente a decorrere dal 2025. Inoltre, l’innalzamento dei tassi d’interesse (verificatosi fino a poco tempo fa) porterà a un significativo innalzamento delle spese sul debito pubblico, aumentando ulteriormente la spesa complessiva, che già supera i 1.100 miliardi.
La domanda da porsi è, a questo punto, semplice: il Governo era al corrente dell’entrata in vigore del Psc un anno fa, quando andava tutto bene «madama la marchesa»? Purtroppo sì. Ma è mancato il coraggio di agire per tempo, illudendo molti elettori. Non sono stati individuati i rimedi per far fronte agli obiettivi imposti dal nuovo Psc. E ora? Scatta l’ennesima emergenza. In realtà, ciò che gli italiani chiamano emergenza è, altrove, un problema che viene affrontato per tempo, a mente fredda. Buon divertimento.
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