I Rohingya, perseguitati ed esuli nel «loro» Myanmar

Sono un popolo senza Stato, uno tra i più perseguitati al mondo dall’esercito Tatmadaw
I profughi in un campo del Bangladesh
I profughi in un campo del Bangladesh
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Nonostante il terremoto di magnitudo 7.7 che il 28 marzo ha colpito il Myanmar, l’esercito (Tatmadaw) non ha mai smesso di bombardare, neppure nello Stato di Rakhine, l’antico regno dell’Arakan, dove si concentra la popolazione di confessione musulmana (circa il 20% contro il 75% dei buddisti).

Sono i rohingya, un popolo senza Stato, «uno dei più perseguitati al mondo», secondo le Nazioni Unite. Si tratta di un gruppo etnico minoritario – fra il 4 e l’8% di una popolazione di circa 55 milioni di abitanti –, di fede musulmana sunnita, presente da secoli sulla costa occidentale del Myanmar, ma da sempre mal tollerato dai birmani, dove l’etnia dominante è sempre stata quella Bamar, prevalentemente buddista.

Almeno dagli anni Settanta, l’esercito birmano ha perpetrato una dura persecuzione contro i musulmani. Uno dei movimenti buddisti più anti-islamici è il Movimento 969, guidato dal monaco Ashin Wirathu, che ha già scontato otto anni di carcere per incitamento all’odio.

Ma non c’è solo la questione religiosa, ci sono quella demografica, quella territoriale, e anche quella etnica, perché i rohingya hanno più somiglianze culturali, religiose ed etnolinguistiche con le comunità dell’adiacente provincia di Chittagong nel Bangladesh.

Per la Giunta birmana – andata al potere il 1° febbraio 2021 con un colpo di Stato che ha destituito il governo democraticamente eletto guidato da Aung San Suu Kyi – sono degli immigrati bengalesi clandestini da generazioni, per questo sono visti come una sorta di cavallo di Troia che il Bangladesh potrebbe utilizzare per annettersi il territorio del Rakhine.

Ben diversa la posizione dei rohingya che affermano di vivere in quelle terre dall’epoca pre-coloniale. Poi, il loro numero si accrebbe ulteriormente dopo la conquista inglese, allorché la Compagnia delle Indie cominciò ad ingaggiare manodopera. Ricordano anche che il generale Aung Gyi, vice capo di stato maggiore delle Forze armate birmane, in un discorso tenuto il 4 luglio 1961, parlò dei rohingya come di «una minoranza etnica parte integrante dell’Unione della Birmania».

Ma le cose sono andate diversamente. La legge sulla cittadinanza del 1982 non li include fra i 135 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti nel Paese, rendendoli di fatto immigrati illegali, e quindi privi di diritti. Per questo continuano a cercare un futuro altrove, in primis nel vicino Bangladesh.

Camminano per giorni nella giungla e poi affrontano il fiume Naf che, per 53 km segna il confine tra il Myanmar (ex Birmania) nord-occidentale e il Bangladesh sud-orientale. A volte ce la fanno, spesso le loro barche affondano.

L’esodo maggiore avvenne nel 2017, quando si ritrovarono in mezzo agli scontri tra l’organizzazione armata rivoluzionaria Arakan Army, che rivendica l’autonomia dell’Arakan, e l’esercito birmano, la cui rappresaglia fu definita dall’allora Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Zeid Ra’ad al-Hussein, «un esempio da manuale di pulizia etnica».

Oggi quel conflitto si è allargato ad altri gruppi armati, assumendo la forma di una guerra civile. Ai rohingya non resta che fuggire, finendo nei campi profughi della città di Cox’s Bazar, in baraccopoli fatiscenti, dove ormai hanno superato il milione, e dove vivono totalmente dipendenti dall’assistenza umanitaria.

Il rapporto di Fortify Rights, pubblicato a marzo 2025, descrive la vita nei campi profughi rohingya, tra uccisioni, rapimenti, torture, minacce, intimidazioni. La violenza è aumentata sensibilmente dal settembre 2021, con l’assassinio di Mohammed Mohib Ullah, leader della comunità rohingya, che si batteva per una risoluzione pacifica con il governo birmano.

Il rapporto mostra anche come il governo bangladese abbia in gran parte fallito nel proteggere i rifugiati rohingya dai gruppi militanti.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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