Quella prima medaglia della squadra rifugiati

Alle Olimpiadi di Parigi la pugile camerunense 25enne Cindy Ngamba ha vinto il bronzo nella categoria 75 kg
Il coraggio di Manizha Talash - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Il coraggio di Manizha Talash - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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«Free Afghan Women – Liberate le donne afghane». Un drappo azzurro sulle spalle, una frase scomoda assai, e Manizha Talash, 21 anni, fuggita dall’Afghanistan dopo il ritorno dei talebani nel 2021, è stata squalificata.

Atleta di break dance, era stata ammessa alle Olimpiadi di Parigi 2024 nella Squadra degli atleti rifugiati dal Comitato Olimpico Internazionale (Cio) «per i suoi sforzi nello sfidare le rigide regole del governo de facto». Ammessa per il suo coraggio, squalificata per quello stesso coraggio. Quasi un paradosso.

Perché se è vero che l’articolo 50 del regolamento olimpico vieta l’utilizzo di slogan per dichiarazioni politiche, è anche vero che quel «liberate le donne afghane» sa più di richiamo collettivo al rispetto dei diritti fondamentali. E gli spettatori delle Olimpiadi quel richiamo avrebbero dovuto farlo proprio. L’impressione è che invece le storie «rocambolesche» di questi «atleti rifugiati» ci piacciano in quanto tali, magari commuovono, purché non turbino il quieto vivere.

Alla cerimonia di apertura dei Giochi, con Manizha, nella barca simbolo dei migranti, c’erano altri 36 atleti. Pur provenienti da 11 Paesi – Afghanistan, Camerun, Cuba, Eritrea, Etiopia, Iran, Repubblica Democratica del Congo, Sudan, Sud Sudan, Siria, Venezuela –, hanno partecipato come figli di un’unica nazione, sotto la bandiera olimpica.

Ragazzi e ragazze con storie diverse, seppur sempre toste, con in comune l’amore per lo sport, la disciplina, la resilienza, la tenacia. Hanno gareggiato in 12 discipline: atletica, badminton, pugilato, break dance, canoa, ciclismo, judo, tiro a segno, nuoto, taekwondo, sollevamento pesi, lotta. Trentasette fra atleti e atlete in rappresentanza degli oltre 120 milioni di rifugiati nel mondo; 120 milioni di persone in fuga, in pratica il 12esimo Paese per popolazione, quasi il Giappone.

Fu all’Assemblea Generale Onu dell’ottobre 2015 che il presidente del Cio, Thomas Bach, annunciò la creazione della Squadra olimpica dei rifugiati. L’anno successivo la squadra esordì a Rio e, nel 2021, partecipò a Tokyo. Parigi, su cui è appena sceso il sipario, ha rappresentato la terza chance. Chance che la portabandiera, la pugile camerunense 25enne Cindy Ngamba ha saputo sfruttare bene, vincendo il bronzo nella categoria dei 75 kg, prima medaglia vinta da un atleta rifugiato.

La storia di Cindy è diventata virale. Dichiaratasi omosessuale, si è così giocata l’opportunità di tornare in Camerun dove l’omosessualità è considerata un reato. Gli altri atleti si sono lasciati alle spalle Paesi in guerra, o regimi dispotici dove i diritti sono calpestati. E dove anche lo sport, come tutto ciò che può significare emancipazione, viene guardato con sospetto.

Ne posso dare testimonianza, perché molti di questi Paesi ho avuto modo di frequentarli. Chi scappa, scappa perché non ha un’alternativa. Iman Mahdavi, 28 anni, iraniano, atleta di lotta libera, originario della provincia di Mazandaran, nel 2020 è fuggito perché perseguitato per ragioni politiche dal regime degli ayatollah. In Italia è arrivato a piedi, lungo la rotta balcanica. In quegli anni, mentre tutti gli occhi erano puntati sul Mediterraneo, dalla Turchia e attraverso la ex Jugoslavia, gli arrivi si moltiplicavano, nonostante le violenze da parte delle varie polizie e i respingimenti alle frontiere.

Capo delegazione della squadra dei rifugiati a Parigi è stata la ciclista 28enne afghana Masomah Ali Zada. Dal 2021, col ritorno dei talebani in Afghanistan, salire in sella a una bicicletta per una donna è impossibile. Ma anche nel 2017, quando Masomah e la sua famiglia decisero di emigrare in Francia, una delle ragioni fu che per le donne praticare sport era pericoloso. L’altra ragione è l’appartenenza all’etnia hazara.

Per motivi religiosi (sono musulmani sciiti) o tribali o per i tratti somatici più simili agli abitanti delle steppe asiatiche, gli hazara sono sempre stati discriminati e perseguitati in Afghanistan dalla maggioranza pashtun, l’etnia dei talebani.

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