Quante incertezze sul futuro della Siria

La ripartenza dalle macerie della guerra civile (che non è finita)
Il leader ribelle Ahmed al-Sharaa, noto come Abu Muhammed al-Jolani - Ansa © www.giornaledibrescia.it
Il leader ribelle Ahmed al-Sharaa, noto come Abu Muhammed al-Jolani - Ansa © www.giornaledibrescia.it
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Quando a giugno 2013 entrai in Siria dalla confinante cittadina turca Gaziantep e condivisi il pranzo con l’Esercito Siriano Libero nel loro quartier generale nei dintorni di Aleppo, la storia era ancora tutta da scrivere.

Quell’esercito era formato di veri patrioti che combattevano per rovesciare il regime di Bashar al-Assad, ma le loro vittorie furono assai fugaci. Il presidente aveva dalla sua l’aviazione, che di solito è arma vincente. Quante bombe ho sentito sibilare. Ma neppure la leadership dell’ESL era abbastanza preparata. Infatti, un anno dopo la situazione era già cambiata. Il rapimento di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo ne fu la prova tangibile: l’Esercito Siriano Libero era stato spazzato via da Jabhat al-Nusra li-ahl al-Sham, la branca siriana dello Stato Islamico all’epoca ancora affiliata ad al-Qaeda. Divenne indipendente nel 2016, cambiò nome in Jabhat Fatah al-Sham e, successivamente, in Hay’at Tahrir al-Sham (Hts), il gruppo che, l’8 dicembre scorso, ha messo fine alla dinastia degli al-Assad.

Qualcuno dei combattenti dell’Esercito Siriano Libero si è riciclato in quello che oggi si chiama NSA, Syrian National Army, ovvero l’Esercito nazionale, sostenuto finanziariamente dalla Turchia. Altri, che con la Turchia non volevano avere a che fare, sono confluiti nelle Forze democratiche siriane, braccio armato dell’Amministrazione autonoma democratica del Nordest della Siria, territorio meglio conosciuto come Rojava.

Furono loro nel 2014 a riprendere Kobane allo Stato islamico. Se Hay’at Tahrir al-Sham ha puntato subito su Damasco, intenzionato a prendere il potere, l’NSA invece ha attaccato direttamente i territori dell’Amministrazione autonoma, prima Til Rafat e Sheba, poi Manbij, e ora assedia Kobane. Erdogan ha cercato fin dall’inizio di annientare quell’esperienza nata nel 2012 per volere della minoranza curda. Il motivo è politico: la Turchia identifica le Forze siriane democratiche con il Partito dei lavoratori del Kurdistan, il Pkk, un’organizzazione indipendentista di curdi turchi con cui è in guerra da decenni. Ma anche territoriale: Ankara vuole ampliare le zone cuscinetto lungo il suo confine dove rimpatriare i tre milioni di profughi siriani che si trovano sul suo territorio. C’è, però da dire che lo scenario è molto cambiato dal tempo della guerra civile. L’Amministrazione autonoma oggi controlla un terzo del Paese. Va da sé che comprende gruppi etnici diversi. Non più solo curdi, ma anche assiri, eziti, circassi, ceceni, turcomanni, armeni, iracheni, drusi.

Se nel 2014 Abu Muhammed al-Jolani, leader di Hay’at Tahrir al-Sham, rilasciava un’intervista ad al-Jazeera dove dichiarava che la sua visione politica era di una Siria islamica senza spazio per le minoranze, a partire dal discorso nella Grande Moschea di Damasco, i termini inclusività e riconciliazione si sono sprecati. A temere ritorsioni sono, in particolare, gli alawiti, perché a questa setta nata dall’islam sciita, appartengono la famiglia di Bashar al-Assad e gli uomini forti dell’ex regime. Poca tranquillità per la comunità drusa del Golan che vive nell’area occupata militarmente da Israele una quindicina di giorni fa, ma anche per i cristiani che hanno visto crivellare di colpi il crocifisso della chiesa greco-ortodossa di San Giorgio a Hama.

Resta aperta la questione degli yazidi che riuscirono a scappare alla persecuzione da parte dello Stato islamico (IS), molti dei quali furono erroneamente inseriti nel sistema di detenzione diretto dall’Amministrazione autonoma. Gruppi di attivisti cercano di identificarli per metterli in salvo, visto che i combattenti dell’IS si vanno via via riorganizzando proprio a partire dai campi dove sono detenuti. Per conoscere quel che sarà davvero della Siria bisognerà aspettare marzo 2025 quando il governo ad interim scadrà e il Paese andrà alle elezioni.

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