Premierato, perché il Governo prende tempo

C’era una volta la riforma costituzionale che mirava a introdurre l’elezione diretta del presidente del Consiglio. E sulla carta c’è ancora, anche se quella che nelle intenzioni iniziali avrebbe dovuto rappresentare il fiore all’occhiello del governo e della maggioranza, pare essersi persa nei meandri dei lavori parlamentari.
I problemi sul percorso sono tanti: le numerose audizioni dei costituzionalisti li hanno messi in luce, ma la ministra Casellati difende con molta forza il testo, che ormai sembra reputato immodificabile. Purtroppo, il meccanismo disegnato, come sanno bene gli esperti (politologi compresi) si arena in molti casi, per esempio sulla legge elettorale, senza la quale la riforma costituzionale – anche se approvata dalle Camere e confermata col voto popolare – non riuscirebbe comunque ad essere applicabile.
C’è poi una motivazione tutta politica: la Meloni, dopo due anni di permanenza a Palazzo Chigi, ha compreso che un certo logoramento dell’Esecutivo, della coalizione e della stessa leadership/premiership è fisiologico. Se il referendum costituzionale si trasformasse in un «sì» o «no» alla Meloni (come accadde a Renzi a suo tempo) l’esito potrebbe essere molto rischioso.
Poiché dunque la riforma richiede tempi lunghi, meglio farla procedere sempre, ma lentamente, «con juicio». Forse lo scopo è arrivare al voto finale del Parlamento in questa legislatura lasciando la consultazione popolare alla prossima, come avvenne nel 2005-2006 alla riforma costituzionale tentata dal centrodestra e bocciata dagli italiani con referendum nel 2006, subito dopo la vittoria del centrosinistra alle politiche.
Il Premierato non è un sistema estraneo alla nostra storia costituzionale. pic.twitter.com/70dLLvijmE
— Maria Elisabetta Alberti Casellati (@Min_Casellati) August 10, 2024
Rinviare la votazione popolare a dopo le elezioni del 2027 vuol dire anche – per forza, perché non si possono varare norme che «incoronano» un premier eletto dal popolo con una legge elettorale ordinaria – rinviare la stesura delle nuove regole di trasformazione dei voti in seggi alla prossima legislatura, eludendo così anche la diatriba fra chi vuole il turno unico (la destra, la quale è disposta a far eleggere il premier a maggioranza relativa, quindi anche col 35% dei voti, portandogli in dote più del 50% dei seggi) oppure il ballottaggio fra i due con più consensi per chi non supera il 45 o il 50% più uno dei voti (il centrosinistra: ma la destra teme il secondo turno, perché alle amministrative non riesce ad aggregare nuovi consensi e fa fatica a far tornare alle urne i suoi per due volte di seguito).
In altre parole, si sta discutendo una riforma che non andrà a regime nel 2027 (come prospettato inizialmente dai promotori) ma nel 2032 o forse mai, se nel 2027 vincesse alle elezioni politiche (e forse al referendum) il centrosinistra. Il problema delle riforme, ancora una volta, è la scarsa flessibilità di chi le propone, come accadde anche a Renzi: se non c’è un’ampia condivisione e una scrittura a più mani (come fu per la Costituzione, peraltro) delle nuove regole del gioco, si rischia di finire in situazioni spiacevoli che poi provocano rinvii.
È vero che siamo nell’era negli annunci, nella quale basta affermare di aver proposto qualcosa per dare l’impressione di averla realizzata, ma le istituzioni sono qualcosa di più serio e di più elevato. Forse c'è ancora tempo per qualche correttivo – anche minimo, purché intelligente – per salvare la situazione e dare al Paese una riforma condivisa da maggioranza e opposizione.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato
@News in 5 minuti
A sera il riassunto della giornata: i fatti principali, le novità per restare aggiornati.
